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piccola posta

Il confronto che attende l'America fra la democrazia liberale e il golpe distillato

Adriano Sofri

Fra le degenerazioni della democrazia, fino a poco fa negli Stati Uniti mancava la risorsa caratteristica dei nemici della democrazia: il colpo di stato. Dopo il 6 gennaio del Campidoglio non più (e comunque si pronuncia Kòmala)

La giustizia, si dice, è lenta, ma arriva. Correggerei: in linea di massima, la giustizia è lentissima, e non arriva. Preferisco attribuire la lentezza, svantaggio e pregio, alla democrazia. Ieri ne ho trovato una prova, leggendo e guardando un servizio (sul Post) che insegnava come si pronuncia il nome di Kamala Harris. Né Kàmala, né Kamàla, ma Kòmala. Kòmala Harris. Io stesso, che sono un maniaco e approfitto senza riserve dei siti specializzati per imparare “come si pronuncia” qualunque cosa – e come la pronuncia una scozzese, un ucraino, un gallese, una russa di Rostov, uno di Londra e una di Manila, una meraviglia – non avevo ancora imparato. Così ho scoperto che Kamala (pron.: Kòmala) Harris si era impegnata a spiegarlo anche ai connazionali, l’aveva scritto in un suo libro, aveva organizzato video di bambine e bambini che in coro insegnano come NON si pronuncia e come si pronuncia. La democrazia è lenta, e quando si tratta di una donna rinvia: rinvia quando lei diventa procuratrice, rinvia quando diventa vicepresidente degli Stati Uniti per quasi un intero mandato, rinvia ancora per qualche giorno dopo che è diventata la candidata democratica alla Presidenza (la prima donna “nera”) e finalmente arriva. Cioè, no: nei nostri telegiornali non ancora, e vediamo stasera nel talk in cui ormai si dice, con l’attenuante di un sorriso, “è stata endorsata”, “Obama non l’endorsa ancora” (come si pronuncia Obama?).

Bene. Della democrazia in America, intitolava Tocqueville, che ci era stato mandato per studiare le galere, e poi da quell’eccellente punto di partenza allargò il tiro. Nel suo saggio lungimirante (scriveva con lo schiavismo in vigore, prevedendone la fine) mise in guardia dai rischi, che non hanno fatto che crescere. Però, salvo che io mi sbagli di grosso – non so niente dell’America, non lo so come fa quella gente che va fin là – fra le degenerazioni della democrazia, la maggioranza dispotica, la plutocrazia e l’invadenza dei tycoon, mancava fino a poco fa la risorsa caratteristica dei nemici della democrazia, il colpo di stato, il vanto d’origine della reazione europea, e dall’Europa esportato nei paesi ex coloniali. Gli Stati Uniti ne erano stati buoni discepoli ma fuori, a Santiago… Era inevitabile che una volta introdotto nella scena americana (Usa), e non a Hollywood, ma al Campidoglio in marmo e ossa, il 6 gennaio 2021, il colpo di stato, la sua dinamica, la sua “tecnica”, avrebbero dovuto adattarsi alle caratteristiche senza precedenti del suo laboratorio. E se i suoi fautori lo chiamano insurrezione e, meglio, “Marcia (citazione: siamo noi) per salvare l’America”, per lo più anche gli avversari preferiscono chiamarlo rivolta, sedizione, terrorismo interno. Io inclino al tentato colpo di stato, pur sapendo che il manuale dei colpi di stato prevede l’impiego delle forze armate dello stato (polizie, esercito) o di una loro parte. Direi che il punto vada però adeguato a una società come quella americana in cui una massa colossale di cittadini è armata, e la distinzione fra il monopolio legale della forza e il suo abuso non passa dal monopolio (con deroghe limitate) delle armi. Che paradossi ne derivino è sotto gli occhi di tutti: Trump che ostenta il suo cerotto proclamando di aver preso una pallottola per la democrazia.

Tuttavia il 6 gennaio del Campidoglio, che costò morti e feriti e l’umiliazione dell’immagine stessa della democrazia nel suo dichiarato santuario, non poteva prevalere, così che lo si sarebbe considerato, e qualcuno lo fece, un incidente gravissimo ma passeggero. Ma il ritorno in forze di Donald Trump, condannato e processato e perdonato, induce a correggere un connotato ritenuto decisivo del colpo di stato, cioè il suo carattere improvviso, fulmineo, e il suo esito fatale, o la va o la spacca, e a immaginare invece un colpo di stato lento – rateizzato. La possibile vittoria elettorale di Trump quattro anni dopo non sarebbe che uno sviluppo e un coronamento della prima tappa, quell’assalto al Campidoglio. La cosa ha un’aria piuttosto da America latina, con tutto il rispetto, ma non direi che sia il segno di una latinizzazione del potere degli Stati Uniti, ché al contrario ha un connotato bianchissimo e dei peggiori.

A far propendere per questo aggiornamento del colpo di stato e della sua tecnica sta infine, e ora soprattutto, l’avvertimento delle falangi trumpiste che l’eventuale mancato riconoscimento della vittoria di Trump nelle urne duplicherebbe la rapina di allora e scatenerebbe la guerra civile. L’ho già detto, un adattamento dello slogan di Lenin sul “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”, trasformare la sconfitta elettorale in guerra civile. Il colpo di stato tentato, dilazionato, adattato sub condicione al verdetto delle urne, e infine attuato senza più remore. Questa è la versione della democrazia in (mezza, più o meno – più, o meno?) America. Che trasforma l’elezione presidenziale di novembre in un confronto fra la democrazia liberale e il colpo di stato – il golpe distillato, “a pezzi”. Il decrepito (molto brutto) Donald Trump, e la democratica (gran bel viso, mi pare) Kamala (pron. Kòmala) Harris.