piccola posta
Georges Sorel e quel groviglio di storia e pensiero intorno alla violenza
Amico di Croce, ammirò Lenin e ne fu ammirato. Era militante “autodidatta” di un marxismo aggiornato così da liberarlo dal culto dello stato. La riedizione delle sue “Riflessioni sulla violenza”, curata da Fabio Martini e Alfonso Musci, ha una forte attualità.
Paola Cattani (1980), che insegna Letteratura francese all’università romana, ha curato un’edizione degli scritti politici di Paul Valéry fra il 1896 e il 1945, “L’Europe et l’esprit” (Gallimard, 2020), che ha una forte attualità – criterio da trattare con cautela, ma colpisce, se non altro per la constatazione di ciò che era pensabile, e pensato, e fu mancato, e viene di nuovo mancato. Lo cito qui solo per la liquidazione che ne fece Benedetto Croce nel 1931: una congerie di “banalità, errori e aborti di pensieri” che “poteva evitare di pubblicare”. Perché sto anche leggendo la riedizione delle “Riflessioni sulla violenza” di Georges Sorel, curata da Fabio Martini e Alfonso Musci per Castelvecchi (nella traduzione di Roberto Vivarelli). Sorel (1847-1922, agosto, dunque non vide la marcia su Roma) ebbe in Italia una fortuna peculiare, influenzò largamente Mussolini e Gramsci, ebbe un legame stretto e duraturo con Croce, che pubblicò da Laterza questi scritti, nel 1909, e li ripubblicò nel 1926, con l’aggiunta dei successivi, quando la Grande guerra e la marcia su Roma erano avvenute da tempo. Ed era avvenuto l’assassinio di Matteotti, la figura forse più paragonabile a Jean Jaurès, la bestia nera di Sorel, insultato come impostore patriota e assassinato a sua volta nel 1914 per la sua contrarietà alla guerra patriottica. Il titolo del libro può far pensare anche qui a un’attualità rispetto al tema della violenza, della sua auge materiale e della sua deprecazione morale, salvo che Sorel è un devoto della violenza “proletaria”, la meno frenata e la più pura, per così dire, sottratta a qualunque fine e bastante a se stessa. Ingegnere di formazione e militante “autodidatta” di un marxismo aggiornato così da liberarlo dal culto dello stato e intanto da ogni riformismo e parlamentarismo, e arricchirlo della potenza del mito dello sciopero generale “proletario”, contrapposto a quello “politico”. Strumentale il secondo alla aspettativa illusoria o truffaldina di conquiste parziali e alla carriera degli intellettuali parassiti della classe operaia, assoluto il primo, espressione “intuitiva”, “istintiva”, e finale, della separazione della classe dai suoi sfruttatori e da ogni idea di stato.
Nemico sprezzante della delazione e della ghigliottina, della violenza giacobina che aveva riprodotto quella dei potenti abbattuti, e aveva finito per soccomberle, Sorel ammirò tuttavia Lenin e ne fu ammirato. (Nel 1932 fascisti italiani e comunisti sovietici, ricorda Martini, si offrirono contemporaneamente di finanziare un monumento parigino a Sorel). Una osservazione ragionevole di quel contesto paradossale può forse distinguere fra le assimilazioni troppo sbrigative fra nazifascismo e comunismo (e stalinismo) a posteriori, e il riconoscimento dell’ambiente culturale, politico, psicologico, emotivo, tra fine di secolo e inizio del Novecento, cui i diversi sviluppi futuri avrebbero attinto. Soprattutto un connotato del sorelismo mi sembra decisivo: il suo “spirito di scissione”, la sua dedizione ossessiva alla separazione alchemica, chirurgica, fra i protagonisti della guerra di classe, gli spietati capitani d’industria e gli spietati produttori fatti consapevoli della propria centralità e autosufficienza – e, l’acquisto collaterale intimamente agognato, la piazza pulita di tutte le figure mediane e mediocri, a cominciare dagli aborriti parlamentari e intellettuali socialisti. “La scissione delle classi che è alla base di tutti i socialismi”. Un odio irriducibile per ogni prossimità, per ogni vicinato. Ci sono, nelle nostre città medievali, palazzi di famiglia i cui muri laterali sono divisi da una quasi impercettibile intercapedine, per non toccarsi. “Non mi toccare!” – è la posizione del corpo a corpo più ravvicinato che prepara l’ultimo sangue. Lo sciopero generale è l’ultimo sangue.
Tutto questo è stato, dunque, anche a non voler essere storicisti da dozzina, non è solo una conferma dell’assurdità della storia. Della sua tragicità sì. Perché l’inveramento (sentito come il tradimento) del “mito” e della rivolta liberatrice, della “pura lotta simile a quella degli eserciti in guerra”, fu la Prima guerra, la sua attuazione di ferocia e brutalità senza eguali, la sua illusione di una vicinanza fratricida delle trincee che si sarebbe rovesciata all’indomani nella comunanza rivoluzionaria. Ancora dopo, e con l’appello a “fare come la Russia”, la carneficina della guerra fu creduta l’occasione per il dispiegamento della violenza nella guerra di classe, e non ci si accorse – se non tardi, se non mai – che la guerra di classe continuava quella delle nazioni, dalla parte opposta, sindacalisti rivoluzionari compresi (poche eccezioni), e vinceva. Dunque, è l’edizione “crociana” del 1926 che dev’essere ancora spiegata. Sorel era morto e sepolto, persuaso di essere stato sorpassato dai tempi, lasciando in eredità un monito sull’avvento della plutocrazia americana…
Questa, del 2024, è altro affare. Ragioni per assegnarle, moderatamente, un’attualità, non mancano. L’avversione alla “vita comoda”, “effeminata”, l’antiparlamentarismo, per dire la principale, che ha molte facce ma è soprattutto il sinonimo pregnante del populismo.
Nella brillante postfazione, Alfonso Musci riconosce al Sorel lodatore dei soldati di Napoleone, prodi sapendo che sarebbero restati poveri, al Sorel nemico intransigente di ogni “convenienza”, al visionario della fabbrica come un campo di battaglia di eroi omerici, l’ispirazione che gli è più cara, quella del “sacrificio senza speranza di premio” di Pisacane. Del resto, ancora nel ’47, Croce scriveva dell’“animo puro” del suo amico e corrispondente Sorel. Che groviglio.