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Un sogno di Kafka per essere in piena attualità con le Olimpiadi

Adriano Sofri

Il racconto onirico di un campione di nuoto trascritto in un diario dello scrittore. Ogni tanto anche nelle sue lettere si insinua come un inizio di sogno, un capriccio dell’immaginazione, e K. gli va dietro fino a venirne a capo

"'Il campione di nuoto! Il campione di nuoto!' gridò la gente. Ero reduce dalle Olimpiadi di Anversa, dove avevo stabilito il primato mondiale di nuoto. Stavo sulla scalinata della stazione ferroviaria della mia città natale – dove si trova? – e guardavo giù sulla folla, resa indistinta dal crepuscolo. Una ragazza, cui feci una rapida carezza sulla gota, mi infilò pronta una sciarpa, su cui c’era scritto, in una lingua straniera: Al vincitore olimpionico”.
Così siamo in piena attualità. E’ un sogno di Franz Kafka, trascritto in un diario. (C’è una Memoria Sellerio di suoi “Sogni”, a cura di Gaspare Giudice, 1997). Voglio lodare oggi la riedizione Neri Pozza del carteggio fra Kafka e Max Brod, “Un altro scrivere. Lettere 1904-1924”, curata da Marco Rispoli e Luca Zenobi, 447 pp., 30 euro. Non per fomentare l’inclinazione a leggere molto su Kafka e del Kafka privato, e soprattutto sulla sua vita (non vita) sessuale, facendo a meno di leggere le sue opere, a cominciare dalle (poche) che lui avrebbe voluto lasciare ai posteri. Non si può evitare di provare, alla lettura di questa corrispondenza più ancora che dei diari (si cede alla confidenza con un amico più che a quella teoricamente “con se stessi” del diario, e forse perché il diario non è così maschio…) un’indiscrezione affine a quella che sconcerta per certe “intercettazioni”. Kundera si dedicò accanitamente al punto (a volte eccedendo in severità nei confronti di Brod). Del resto, a scoraggiare le curiosità più invadenti basta lo stesso K.: “Hai ragione quando dici che la dimensione più profonda della vera vita sessuale a me resta nascosta; lo credo anch’io”.

Il carteggio mostra come l’ebraismo, per chiamarlo così, pervadesse l’esistenza quotidiana di K., più o meno leggermente, ironicamente, drammaticamente: come un ronzio di fondo. “… Non mi sarei proprio trasferito in Palestina, ma almeno ci sarei andato scorrendo con il dito sulla carta geografica”. Ogni tanto nelle lettere si insinua come un inizio di sogno, un capriccio dell’immaginazione, e K. gli va dietro fino a venirne a capo, arruolato involontario nella guerra di Troia. “Talvolta per gioco mi immagino un greco anonimo che capita a Troia senza averne l’intenzione. Non si è ancora nemmeno guardato intorno e si trova già nella mischia, gli dèi stessi non sanno affatto di cosa si tratti, ma lui è già attaccato a un carro da guerra troiano e viene trascinato per la città, Omero è ancora lontanissimo dal cominciare a cantare, ma lui giace lì ormai con occhi vitrei, se non nella polvere di Troia, sui cuscini della sedia a sdraio. E perché? Ecuba, ovviamente, non è nulla per lui, ma anche Elena non è decisiva; così come gli altri greci chiamati dagli dèi sono partiti e hanno combattuto protetti dagli dèi, egli è partito in seguito a una pedata del padre e ha combattuto sotto la maledizione paterna; una fortuna che ci siano stati anche altri greci, la storia universale sarebbe rimasta confinata a due camere della casa dei genitori e alla soglia della porta che le separa”. Un grosso insetto in attesa del suo Omero, dopo averlo già trovato.

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