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Il suicidio in carcere, vistoso e agghiacciante. Altrimenti a che serve?

Adriano Sofri

Lo constatava in tono di apparente cinismo un testo del 1970. Anno in cui i “tentativi di suicidio” in carcere registrati furono 28 in 9 mesi. Fate il paragone con i numeri di oggi

Una giovane donna che non conosco mi ha spedito la tesi con la quale ha appena preso la laurea magistrale in scienze storiche (si chiamano così, io mi adeguo) all’università milanese. Lei è Isabella De Silvestro, il suo titolo è: “I dannati della terra. Esistere e resistere in carcere: Lotta Continua e il movimento dei detenuti tra rivolta e riflessione (1969-1975)”. Ho apprezzato contenuto e forma del suo lavoro, ma me ne avvalgo oggi solo per la citazione che fa di un testo di oltre mezzo secolo fa, che trattava di autolesionismo, maltrattamenti e, il punto più attuale, di suicidi. Diceva: “Il suicidio è la forma più disperata e spesso l’atto conclusivo dell’autolesionismo. Ci si suicida in molti modi: ci si tagliano i polsi con le schegge di vetro, si inghiottono lamette da barba, chiodi e cocci di bottiglia, si muore sfracellandosi da un pianerottolo, impiccandosi alle sbarre, frantumandosi il cervello contro il muro, dandosi fuoco con una bomboletta di insetticida, riempendosi la bocca e il naso di stracci. Molti non sanno nemmeno che, se in carcere si decide di morire, si cerca di morire in modo vistoso, agghiacciante. Altrimenti il suicidio è inutile, non serve neanche da protesta e si finisce sull’elenco compiacente dei deceduti per infarto, per occlusione intestinale, per embolia cerebrale o per caduta dalle scale. Se da una parte, dunque, vi sono forme di suicidio talmente incontrovertibili da non poter essere ignorate, esistono anche forme di suicidio che si prestano ad essere occultate in vari modi, magari con la consueta complicità di qualche medico”.

Lo ripubblico (non fui l’autore) per due ragioni. La prima è il tono di apparente cinismo, o almeno di imperturbata freddezza, con cui si avverte di un’ovvietà, che tuttavia può sfuggire a qualcuno: se si decide di morire in galera, ci si premura di morire “in modo vistoso, agghiacciante”. Pena finire nelle liste di morti per incidente, o per cause naturali (naturale del resto è), o di venir catalogati fra i defunti ospedalieri, così da alleggerire le statistiche sui morti di galera. Ci si suicidi utilmente, insomma, altruisticamente. (Vecchia idea, Dostoevskij ne fece un suo cavallo di battaglia).

La seconda ragione per cui lo pubblico è che nell’anno 1970, di cui si trattava, i “tentativi di suicidio” in carcere registrati furono 28 in 9 mesi – dunque, a quel tasso, più o meno 37 nell’intero anno. Tentativi. Nei 5 anni precedenti, la media annuale dei tentati suicidi fu di 22. Quella dei suicidi “riusciti” di solo 6. Fatta la tara alle censure e le manipolazioni che allora le autorità penitenziarie e l’annessa informazione professionale praticavano molto più tranquillamente, la differenza è comunque madornale. 6 suicidi all’anno contro i 62 fra gennaio e luglio di quest’anno – media finale prevedibile, di questo estremo passo, calcolatevela voi, ve ne farete un’idea più concreta.

(Quanto all’espressione “suicidi riusciti”, che anche lei può sembrare cinica, ricordo il documento recente della Sorveglianza di Firenze in cui si negava l’accesso ai “benefici penitenziari” a un detenuto perché aveva tentato il suicidio, per giunta “per impiccagione”, e senza successo.

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