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Dai pescatori a Dante, le occorrenze figurate della “morte” in rapporto al mare

Adriano Sofri

“Butta un corpo morto”, un oggetto pesante che ancori al fondo una boa o un altro oggetto galleggiante. Inesauribile suggestione metaforica, fino agli innumerevoli mancamenti del Sommo Poeta

Un inaspettato interludio marittimo mi ha riportato alla mente le occorrenze figurate della “morte” in rapporto al mare. (Quanto a quelle materiali, l’estate ne è piena, per poveri e per ricchi). Il caso più comune è nel “fare il morto”, magnifica circostanza fisica e inesauribile suggestione metaforica, ora rilanciata nella cosiddetta strategia dell’opossum. La cronaca di Porticello ha impiegato la denominazione di “opera morta”, a proposito dell’albero alto come la torre di Babele, contrapposta all’“opera viva” che riguarda tutto ciò che nell’imbarcazione sta sotto il piano di galleggiamento. Il terzo caso è quello del “corpo morto”. “Butta un corpo morto”, un oggetto pesante che ancori al fondo una boa o un altro oggetto galleggiante. E’ quello che mi attrae di più da quando, moltissimo tempo fa, lo sentii usare dai pescatori, e mi fece pensare che forse Dante ne era stato colpito anche lui, e se n’era ispirato per il gran verso finale del canto quinto dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca: “E caddi come corpo morto cade”. Il verso completa lapidariamente la terzina che precede, “Mentre che l’uno spirto questo disse / l’altro piangea; sì che di pietade / io venni men così com’io morisse”. Sopraffatto dalla pietà, Dante sviene, come se morisse. Poi cade, “come corpo morto cade”. Versi cui è stata dedicata un’inesauribile attenzione. L’assonanza col verso finale del canto terzo, “e caddi come l’uom cui sonno piglia”, ha indotto specialisti clinici a diagnosticare a Dante la narcolessia – fin dall’esordio, povero Dante, “tant’era pien di sonno…”.

Ieri, rivisitando la mia antica idea sull’ispirazione marinara di Dante, ho trovato grazie a Google che una studiosa di filologia romanza e di linguistica italiana, Elisa Guadagnini, ha dedicato un saggio a “Una breve storia del ‘cadavere’: caduti latini, corpi morti romanzi e una postilla dantesca”. Non ha preso in considerazione la versione marinara del “corpo morto”, com’era del resto presumibile. Vi ho letto notizie affascinanti sulla concorrenza fra “cadaver” e “corpus (mortuum)” dall’antichità latina alle lingue romanze. L’etimologia di cadavere viene fatta risalire precocemente, già da Isidoro di Siviglia, a “cadere”. “E caggiano / cadono / li corpi morendo, però che dal cadere si chiama cadavere il carcame”, dirà un Agostino da Scarperia. La cosa curiosa è che le lingue neolatine esitano a impiegare la parola “cadaver” – Dante non lo fa mai, né nelle opere volgari né nelle latine. Sicché, in un verso dalla forte allitterazione come quello, “E caddi come corpo morto cade”, coniuga due volte il verbo cadere da cui “cadavere” vien fatto derivare, e al suo posto impiega il “corpo morto”. (Il verso dantesco sarà poi ripreso ampiamente, compreso l’Orlando furioso: “… cada come corpo morto cade”. Il calcestruzzo, il cemento sono recenti, prima però c’erano le pietre incatenate ad ancorare il galleggiante. Ho letto anche uno dei rari commenti a Dante dal punto di vista marinaro: Silvestro Sannino, “La navigazione in Dante” (Rivista marittima, sett. 2021), niente corpo morto. Senza nessuna pretesa scientifica, resto attaccato all’idea che Dante, imbarcato in qualche piccioletta barca di pescatori, avesse sentito quel comando: “Butta un corpo morto”, e l’avesse visto precipitare verso il fondo. Come io ieri, di nuovo.

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