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Putin non ha mai avuto le mani così libere, procede e intensifica

Adriano Sofri

Il viaggio in Mongolia prova la sicurezza con la quale il presidente lascia la Federazione russa, e il risultato delle elezioni regionali tedesche, è il colpo più pesante inferto alla solidarietà europea con l’Ucraina

Putin non ha mai avuto le mani così libere. Qualcuno si era interrogato sull’azzardo apparente del suo viaggio in Mongolia, il primo paese visitato che ha aderito al Trattato di Roma sulla Corte Penale Internazionale, dalla quale il despota russo è ricercato come criminale di guerra. Figurarsi. Al contrario, il viaggio era tanto più significativo per la sicurezza con la quale Putin lascia la Federazione russa, senza la minima preoccupazione di doversi coprire le spalle. Non c’è occasione migliore, per deporre i dittatori con una congiura di palazzo, che i loro viaggi esteri. In Russia non ci sono congiure di palazzo né opposizione alla luce del sole che possa esser presa in considerazione. Non ora.

Putin non ha mai avuto le mani così libere. Il risultato, tanto più impressionante quanto più annunciato, delle elezioni regionali tedesche, è il colpo più pesante inferto alla solidarietà europea con l’Ucraina. Nella sua componente importante detta, troppo alla svelta, “rossobruna”, è una promessa di ricostruzione del muro di Berlino. A Kyiv devono sapere meglio di tutti che cosa vuol dire. La stessa impresa nell’oblast’ di Kursk, protratta oltre le aspettative, agisce anche paradossalmente come un’autorizzazione in più all’esercito russo a sfrenare i propri attacchi. Se alleati come il governo italiano (e buona parte dell’opposizione) dichiarano ingiusto e anzi scandaloso l’impiego delle armi contro le basi nel territorio russo dalle quali gli attacchi partono, i russi ne ricavano carta bianchissima alla loro supposta reazione. A Poltava l’altroieri, a Lviv ieri, e così avanti. La strategia del Cremlino è dettata dal contesto, dalla terra bruciata di Gaza, dalla pratica di ingresso della Turchia nei Brics, dai missili iraniani, dai proiettili nordcoreani, dalla flemma pechinese, dal novembre americano. La strategia è di procedere, anzi di intensificare, la demolizione dell’Ucraina. Fino al punto che occuparla, o portarla sotto il proprio controllo, sia inutile se non controproducente: una Troade inseminata.

Il rincaro dei missili russi coincide con un passo spettacoloso nel regime di guerra ucraino: il rimpasto, se vogliamo ancora chiamare così un vero e proprio rifacimento del ministero di Guerra, che ne pensiona anche titolari promossi già durante il conflitto, e dalla dichiarata fedeltà alla guida di Zelensky. Per un rispetto dell’autonomia di scelte di un paese in una guerra di aggressione, oltre che per una difficoltà a conoscere e interpretare le relazioni di un paese grande ma dalla struttura istituzionale ancora fragile e condizionata dal passato, nella corruzione endemica (sovietica) e nei legami personali, di cordate e di consorterie, gli alleati hanno evitato almeno pubblicamente, che è il piano che conta, di interferire con la conduzione politica del paese. La quale è restata sempre più concentrata in un solo uomo, il presidente Zelensky, e in una sola cornice legale, quella d’eccezione della legge marziale. La durata, all’inizio imprevista, della guerra, ha sospinto l’uomo solo e la legge marziale oltre la scadenza regolare della presidenza, argomento che la propaganda russa, da che pulpito, non ha mancato di cavalcare. Il sostegno popolare a Zelensky – di un popolo che ha visto uscire dai suoi confini milioni di concittadini, soprattutto donne e bambini – è diminuito, com’era inevitabile, rispetto alla compattezza degli inizi: era inevitabile, ma resta da vedere se la diminuzione sia fisiologica o anche patologica. Oggi, è difficile decidere se il potere di Zelensky sia dovuto più al consenso interno o all’affidamento degli alleati. Sta di fatto che per chi non è addentro alle cose di palazzo ucraine, dopo la catena ininterrotta di destituzioni e dimissioni, brutali o morbide, che hanno investito politici, magistrati, governanti centrali e locali, capi militari, capi religiosi, commissioni di ogni genere, spesso ma non sempre motivate dalla lotta alla corruzione richiesta dall’Europa, la leadership ucraina si riduce a tre o quattro nomi, oltre a quelli di Zelensky e di sua moglie: i suoi fidi, salvo errore, Yermak e Podolyak, e il comandante in capo Oleksandr Syrs’kyj, il successore di Valerij Zalužnyj.  

C’è forse una logica in tutto ciò, e forse una che non si riduca all’impulso alla conservazione che è di ogni potere, e tanto più con l’acqua alla gola di una guerra micidiale. Ma non è facile riconoscerla, anche agli osservatori più di buona volontà, più amici dell’Ucraina, più nemici della Russia di Putin e dei suoi amici. Poco tempo fa Zelensky era sembrato suggerire sviluppi più aperti, forse la riuscita avventura di Kursk li ha fatti rintanare. Del resto, la Russia non ha l’acqua alla gola. Zelensky ha commentato, a quanto pare, la liquidazione del governo, compreso il ministro degli esteri Kuleba (tutti ambasciatori?), dicendo che c’è bisogno di energie fresche. E’ sorprendente che non aggiunga, non solo a se stesso, che l’auspicio vale anche per lui. E che chi assiste alla rocambolesca catena di dimissioni e destituzioni (cinque giorni fa, dopo lo sventurato schianto dell’F16 guidato da un campione dei piloti di guerra ucraini, Oleksyi Mes, era stato congedato in tronco il comandante in capo dell’aeronautica militare, Mykola Oleshchuk) si aspetterebbe che il presidente Zelensky provasse a spiegare al popolo suo e altrui quando e come verrà anche per lui il momento del ritiro, o della riconferma. “Quando la guerra sarà finita, e l’Ucraina avrà ripreso tutto il territorio che il diritto internazionale le riconosce come suo”, non è infatti una risposta. Non più, almeno.

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