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Semantica delle “anime belle” che vogliono disarmare l'Ucraina per un asserito amore della pace

Adriano Sofri

Domanda: non ci si trova forse di fatto nell’“incapacità di influire sul corso del mondo con il proprio impegno e la propria operosità”, come scrive Hegel? Questo è l'effetto che fa chi si appella alla Russia perché fermi le sue armi

Sulla Stampa di lunedì c’erano due articoli, uno di Marco Revelli uno di Massimo Cacciari, che evocavano, ovviamente per respingerla da sé, la categoria delle “anime belle”: epiteto di cui si sentono gratificati per il loro amore per la pace. Quando vedo impiegata polemicamente o sarcasticamente l’espressione di “anime belle” chiudo la pagina e passo ad altro. Da tempo “anime belle” – o il suo presso che sinonimo, “radical chic” – è diventato un modo per irridere qualunque sensibilità al miglioramento di questo porco mondo. Ieri ho consultato la Treccani, dove la voce Anima bella è laconicamente redatta da Giuseppe Bedeschi, che ne traccia le origini antiche e lo svolgimento cruciale in Hegel, nella “Fenomenologia dello spirito” (1807). Là, riconoscendo ancora nell’anima bella “la soggettività elevata all’universalità”, Hegel la descrive “incapace tuttavia di uscire da sé stessa, e di trasformare, attraverso la propria azione, il proprio pensiero in essere”. Sicché l’anima bella è “questa fuga davanti al destino, questo rifiuto dell’azione nel mondo, rifiuto che porta alla perdita di sé”. In conclusione, “l’anima bella è quindi pura e incontaminata, ma completamente incapace di agire nel mondo, e di influire sul suo corso con il proprio impegno e con la propria operosità”.

Mandando al diavolo le tenzoni fra anime belle e anime belliche – del “pacifismo” ideologico, che preferisce chiamarsi “di principio”, trovo insopportabile, oltre che assurda, la pretesa che i propri interlocutori, salvo che siano armaioli o mercenari di professione, non amino a loro volta, e altrettanto, la pace – mi chiedo se, nel caso concreto dell’Ucraina invasa dalla Russia, non ci si trovi di fatto nell’“incapacità di influire sul corso del mondo con il proprio impegno e la propria operosità”, se non al rischio di influire, ma malamente. La condizione, inesorabile, quotidiana, con cui misurarsi è quella della guerra, combattuta da più di due anni e mezzo, sul territorio ucraino (la striscia di Kursk non contraddice se non simbolicamente lo stato di fatto), con una manifesta prepotenza di armamenti e di uomini della Russia che ha aggredito, ingigantita dall’esplicita minaccia russa di ricorrere al proprio arsenale nucleare. In questa condizione, gli eventuali appelli alla Russia (che non ci sono, o sono papali o teneramente flebili e retorici) perché fermi le sue armi, non hanno avuto e mostrano finora di non avere alcuna efficacia pratica. In realtà, la mole di violenza distruttrice di vite umane, città, villaggi, infrastrutture, inferta quotidianamente al territorio ucraino non fa che superarsi.

Al contrario, gli appelli a smettere gli aiuti militari all’Ucraina hanno una effettiva e crescente efficacia – l’Italia ne è un esempio, con la discrepanza appena certificata fra parole e fatti, ma non è certo la sola. Del resto, questa è semplicemente la manifestazione della differenza fra democrazia e autocrazia, fra – relativo com’è – stato di diritto e – assoluto com’è – stato di forza. Ancora più efficace è il freno opposto all’impiego ucraino delle armi oltre il confine russo, una “linea rossa” almeno paradossale dal momento che l’esercito russo bombarda nel territorio ucraino fino al suo estremo confine occidentale, e che il territorio ucraino lo ha invaso e continua ad avanzarci dentro. In questo caso, si dirà, non c’entrano amor di pace o voluttà di guerra, ma la prudenza e il desiderio di sventare il male maggiore, come sarebbe una Russia ferita che passasse al confronto nucleare. Solo che questo, che si presenta come un responsabile realismo (non m’importa qui delle sue versioni strumentali e ipocritamente complici), vuol dire aver accettato “razionalmente” che una potenza nucleare che decida di violare il rispetto per l’indipendenza e la sovranità di altri stati non possa essere fermata, e debba avere partita vinta. Da una parte, c’è una necessaria considerazione della misura. Dall’altra, la certezza che non ci sarà più un solo stato del pianeta, a cominciare dai più lazzaroni, che rinunci alla corsa ad armarsi dell’atomica. Pyongyang è il modello universale.

Si auspica una cessazione del fuoco che prepari un negoziato? E’ un auspicio ragionevole e condiviso. Ridurre la capacità militare di una parte – la più debole, oltretutto, e quella che si difende – mentre resta intatta, o addirittura si rafforza, la capacità militare dell’altra parte, è un modo di avvicinare la cessazione del fuoco e il negoziato? O un modo di avvicinare la cessazione di un fuoco e far che divampi l’altro?

Penso che, fra gli attori principali, nessuno miri alla fine della guerra più di Zelensky, il quale propone suoi piani di pace (e di vittoria) sapendo bene che non dipende da lui. Lui sta fra l’oltranza di Putin, l’indisponibilità della resistenza militante ucraina e del suo carico di caduti, e il rischio della diserzione o della dimissione civile. Qualcos’altro, qualcun altro, dovrà aprire un varco.

Fino a che la Russia continui a fare terra bruciata dell’Ucraina, l’appello o la mobilitazione per disarmare l’Ucraina è un modo per rafforzare l’aggressione e i suoi fini. Per favorire la resa, non la tregua, né la pace. La Russia non vuole solo sconfiggere l’Ucraina, vuole fiaccarla, fiaccarne lo spirito. Certificare la supremazia di truppe mercenarie sullo spirito di resistenza. Vivano la pace, il negoziato, il cessate il fuoco: intanto, quando sono piovute sull’Ucraina “in una sola settimana, oltre 800 bombe aeree guidate, quasi 300 droni Shahed e oltre 60 missili di vario tipo”, disarmare l’Ucraina vuol dire amare la pace? O non è un modo per influire malamente sul corso del mondo?

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