Matteo Salvini - foto Ansa

Piccola Posta

Dal processo a Salvini all'Ilva, la giustizia è sempre più squartata fra forma e sostanza

Adriano Sofri

L'apparato giudiziario italiano fa sempre più fatica ad affrontare le questioni cruciali con chiarezza e senso di responsabilità. Tra Taranto e il processo nei confronti del leader della Lega l'esito possibile sembra essere solo uno: sommo diritto, somma ingiustizia

“Arrendermi? Mai!”. Hanno risposto così ieri Donald Trump e Matteo Salvini. Il primo rispondeva a un tentato attentato al kalashnikov, il secondo a una richiesta della pubblica accusa in processo. Ormai una cosa vale l’altra. Dal governo si accusa la pubblica accusa di voler demolire i confini della patria. Messi a estremo repentaglio dall’eventualità che 147 migranti soccorsi e arrivati, fra i quali molti minori, inermi, quasi denudati, ed estenuati, dopo otto regolari richieste di assegnazione del porto di sbarco inascoltate, venissero sbarcati prima di essere costretti a 19 giorni di sequestro fermo in mare e al sole di ferragosto. Questo è così ridicolo da rendere imbarazzante discuterne, al contrario di come hanno fatto per dovere d’ufficio i magistrati di Palermo. I quali non hanno “interpretato” la legge, ma l’hanno applicata, e così facendo hanno tutelato un ideale di umanità e uno dello Stato di diritto.
 

Così facendo saranno stati anche turbati, senza lasciarsene sequestrare, da una forte preoccupazione. Il processo avrà un esito. Se dovesse contraddire alle radici le richieste dell’accusa, darebbe ragione a un orientamento politico e a una parte ingente dello spirito pubblico (la coincidenza fra la requisitoria di Palermo e i commenti all’assassinio della signora di Viareggio che poi è andata a restituire l’ombrello, così che fosse chiara la normalità della cosa) e rianimerebbe un po’ l’esanime presenza di Salvini, ridotto ad attendente di un generale in licenza premio. Se il tribunale riconoscerà la fondatezza dell’accusa, il senso di umanità e la fedeltà allo Stato di diritto ne usciranno rafforzati, e Salvini e i suoi alleati, per i quali ormai è solo una ruota di scorta ma in tempi fitti di forature, rincarerebbero i loro lai contro la persecuzione dei poteri forti, all’unisono con Elon Musk.
 

È una situazione tipica in cui è bene che l’etica dei principii – fare la cosa giusta senza lasciarsi condizionare dalle conseguenze che ne deriveranno – prevalga su un supposto senso di responsabilità. Quest’ultimo ha piuttosto a che fare con l’entità della pena richiesta dalla pubblica accusa, i 6 anni che fanno così impressione da mettere in ombra la sostanza del giudizio, e da far dimenticare che nella lotteria della giustizia 6 anni o multipli cascano capricciosamente sulle spalle di imputati anonimi colpevoli di bagattelle. Gli anni di condanna sono simbolici nelle sentenze, e diventano effettivi solo se e quando entrano nel calendario tristo della galera. Eventualità che nel nostro caso sembra comunque piuttosto esclusa da una sentenza di primo grado che aspetterà un itinerario interminabile, e da un insabbiamento. Che Salvini vada in galera per il suo tronfio crimine è infinitamente più improbabile di uno sbarco sollecito di naufraghi a Lampedusa.
 

La giustizia è sempre più squartata fra forma e sostanza, che dovrebbero nella reciproca adesione costituirne la ragion d’essere. A Taranto sono appena stati cancellati il faticosissimo processo sull’Ilva e le pesanti condanne con cui si era concluso. Il sequestro dell’Ilva risale al 2012, il processo cancellato era arrivato solo al primo grado, e il prossimo, quando sarà, ripartirà dall’udienza preliminare. La giustizia è così invidiosa dell’allungamento della vita media dei suoi imputati da trovare il modo di sopravvivere loro: nessuno andrà mai in galera per l’Ilva e l’ambiente svenduto e le morti per l’aria respirata. Già nella sentenza del 2021 il significato simbolico prevaleva su quello sostanziale fino a sostituirlo del tutto. Adesso è sfumato, tutti illibati. Ho sui padroni dell’Ilva e sui loro gerarchi minori opinioni contrarie a quelle espresse anche qui, ed ebbi una forte solidarietà con le magistrate e i magistrati che costruirono la reazione della legge, oltre che dei lavoratori e della città, a una dilapidazione di Taranto che si presentava e si presenta ancora come fatale. Un bravo cronista tarantino, Francesco Casula, ha ricordato la risposta di Franco Sebastio, che era stato a capo della Procura (è morto nel gennaio del 2023): “Ma davvero abbiamo bisogno di una sentenza per sapere che cosa è successo?” E non era certo un’espressione di resa.
 

Leggeremo le motivazioni della tabula rasa della Corte d’appello jonica, si chiama così, che manda il processo a Potenza. Una, ritenuta delle più probabili, è costituita da un’argomentazione che voglio trattare da profano: poiché i magistrati incaricati del processo vivono anche loro a Taranto, e perfino nei quartieri più colpiti dai veleni dell’acciaieria (e un paio di loro colleghi, sia pur pensionati, hanno voluto anche costituirsi parte civile) ci troviamo in un caso di legittima suspicione: i giudici cioè giudicano di un presunto reato di cui anche loro, come tutta la popolazione di Taranto e dintorni, sono stati e sono vittime. Dunque non possono essere sereni e obiettivi. (A Potenza si controllerà che i giudici competenti non siano a portata delle polveri?) Non sono all’altezza dei ragionamenti tecnici, né alla bassezza. Dico che un profano come me, uno qualunque del popolo, si chiede come sarà mai possibile al mondo citare in giudizio i responsabili dei disastri climatici, dal momento che non ci sarà un solo essere animato che non ne sia toccato. Sommo diritto, somma ingiustizia.

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