Dalla copertina di "Piedi freddi" di Francesca Melandri (Bompiani)

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La "ritirata di Russia" e la guerra in Ucraina in "Piedi freddi" di Francesca Melandri

Adriano Sofri

Una scrittrice con un gran vantaggio: suo padre, tenente ventitreenne al comando di una dozzina di soldati nella Seconda guerra mondiale. Il racconto del conflitto di allora per spiegare quello di oggi. Romanzo, libro di storia, orazione civile politica e polemica

“Non c’è male al mondo peggiore che avere i piedi freddi”. Era la summa filosofica di Franco Melandri, che nel 1943, sottotenente degli alpini, fu, con una dozzina di suoi, tra gli attori della ritirata di Russia, che poi era l’Ucraina. Melandri era nato nel 1919, come Primo Levi, che imparò anche lui che “quando c’è la guerra”, la prima cosa cui pensare sono “le scarpe.”, e che nel gennaio del 1945 vide alle porte di Auschwitz i primi soldati sbalorditi dell’Armata Rossa, che per lo più erano ucraini.  

Francesca Melandri è una delle figlie di quel sottotenente, e via via che andavo avanti nella lettura del suo libro ultimo, “Piedi freddi”, mi veniva voglia di abbracciarla – con tutto il rispetto. Una volta a capitolo. Farei torto a lei e anche a me se dicessi che la mia approvazione commossa dipendeva dalla condivisione piena delle sue convinzioni e dei suoi sentimenti sull’invasione dell’Ucraina. Li conoscevo, era una conferma, mi avrebbe sgomentato il contrario. E che li avrebbe saputi scrivere molto bene, sapevo anche questo –  resta una condizione essenziale, naturalmente.

La prima ragione di entusiasmo sta nel ripristino di una verità tanto ovvia quanto tenacemente ignorata o seppellita: che “la Russia” nelle nostre inveterate espressioni – la “campagna di Russia”, la “ritirata di Russia”, era poi per lo più Ucraina. Che la campagna di Russia fu un’invasione coloniale. E che la “ritirata di Russia” e la sua solenne commemorazione ufficiale, inaugurata qui il 26 gennaio dell’anno scorso, celebrano “una guerra in cui noi eravamo gli invasori fascisti, alleati e compagni degli sterminatori di Babyn Yar, degli inventori di Auschwitz”. All’unanimità, il 26 gennaio, il giorno prima di quello in cui si commemora la Shoah.

Che “la Siberia”, cioè la sterminata appendice asiatica della Russia dalla quale ancora si reclutano e si mandano a rubare lavandini, stuprare, tremare di paura e morire ammazzati i soldati dell’Armata in Ucraina, è anche lei il frutto di un’espansione coloniale, sempre più maturo del resto per cadere in mano della vicina Cina. Che ignoranza – alla lettera – e pregiudizio sono ancora così travolgenti da far sì che una conduttrice (“incolpevole”, poi se n’è scusata) diede notizia della morte, in una pizzeria di Kramators’k, presa in pieno da un missile, della scrittrice “russa” Viktorija Amelina, senza un’obiezione degli astanti…

Francesca Melandri aveva un gran vantaggio, lo aveva già richiamato per accenni in altri suoi libri: suo padre. Il tenente ventitreenne al comando di una dozzina di soldati più vecchi di lui nella ritirata di Russia che poi era Ucraina, proprio quella di oggi – Izyum, Donetz, Nikolajevka… Suo padre che scriveva molto bene, ed era laureato e giornalista, e subito dopo la fine della guerra si mise a vendere pneumatici al Balon di Torino, e non capiva niente di pneumatici, ma era stato fascista a modo suo, che non è detto che fosse un’attenuante, e a tirarlo fuori dall’epurazione e rimetterlo al mondo fu il suo collega e amico Massimo Rendina, “Max il giornalista”, comandante partigiano della Garibaldi che gli mise un fazzoletto giusto al collo e lo portò in giro a farlo vedere e a salvarlo. Come lo avevano salvato le donne russe, che poi erano ucraine, quando si crepava nella disfatta e nella neve.

Che Putin “è solo l’ultimo capo di stato russo che vede l’Ucraina come una moglie fedifraga che vuole abbandonare il tetto coniugale, e che non va solo riportata a casa, ma anche dissuasa una volta per sempre dal riprovarci – per questo l’ha invasa”. Che “rossi e bruni apparentemente divergono nella visione della società ma sono fraterni compagni di strada nell’unica cosa a cui tengono davvero: combattere le democrazie occidentali” (puntuale ritratto dell’andamento elettorale tedesco). Che in Ucraina “è successo l’esatto opposto di quanto accadde in Iraq o in Afghanistan…, che lì ha prodotto stati falliti o peggiori di quelli di prima”, e qui avviene “grazie a” Putin. Che una scrittrice, con un impegno femminista, eurocomunista, libertario, antifascista e anticolonialista, di fronte all’invasione si chiede –  no, chiede: “Che cosa c’è da capire?”.

Con tutto il rispetto, avrei voluto soprattutto abbracciarla quando, alla fine del libro, Francesca Melandri ha raccontato il proprio amore per la steppa mongola, il gran viaggio in cui fu lei capocarovana, come usa là, a cavalcare in testa con le redini in una mano e la corda del capo-cammello nell’altra. Il presidente della Federazione mondiale mongola che nel settembre 2022 si rivolse ai mongoli tuvani, calmucchi, buriati usati come carne da cannone: “Non sparate agli ucraini. Non uccidete la loro libertà”; e colonne di cittadini mongoli della Federazione russa riparavano oltre il confine accogliente della Mongolia.

Melandri ha avuto il tempo di seguire nel suo racconto la gara delle guerre degli odii e delle viltà che sembrano essersi date appuntamento e stanno per scadere, il 7 ottobre e la carneficina e le macerie di Gaza e il sarcasmo sulla mediocrità costretta a farsi eroica: non a registrare quello che immagino un vero colpo al suo cuore, la visita di Putin in Mongolia, la prima in un paese aderente alla Corte penale internazionale, che lo ha accolto “come uno zar” nella piazza centrale di Ulan Bator dedicata a Gengis Khan. Anche la Mongolia “ha bisogno del gas”.

I libri durano poco, al giorno d’oggi. Mi dispiace di essere già in ritardo, ne ho scritto in fretta. Romanzo, libro di storia, orazione civile politica e polemica, è un gran libro, non è fatto per carezzare il pelo: non mancatelo. "Piedi freddi", Bompiani, 260 pp., 17 euro.

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