piccola posta
Non tirate Prezzolini per la giacca
Citato o deplorato, non fu “nazionalista”. Impressioni a partire dalla citazione che ne ha fatto Meloni a New York, e dai commenti della storica Ponzani a "Otto e mezzo"
Un mio premuroso amico mi manda un link e mi raccomanda di guardare la puntata di martedì scorso di “Otto e mezzo”. Lui sa della mia insofferenza per la conversazione fra Travaglio e Gruber, simile a quella fra il cognato di un petroliere in vacanza in Engadina e la cameriera del piano. Guarda, mi dice: lei stavolta ha perso la pazienza. Guardo, vedo il fastidio di lei, che fu a cavalcioni su un muro diroccato di Berlino e ospita da anni i comizi che farebbero invidia a Sahra Wagenknecht, vedo il dispetto viziato di lui – ci vuol altro, certo. Però è altro che mi colpisce della puntata.
Gruber interpella la storica Michela Ponzani sul Prezzolini citato da Meloni a New York – per una sentenza banalissima, chi vuole conservare non ha paura del futuro se ha imparato dal passato, contava più il nome che il concetto. Ponzani, sorprendentemente (ho letto di lei solo il libro sulla “Guerra alle donne”, 1940-45), deplora Prezzolini nazionalista e interventista e poi, nella foga, lo definisce “sanguinario”. Travaglio ne approfitta per dire che Prezzolini “non ha mai ucciso nessuno”, che non so se sia vero – Prezzolini fu al fronte come ufficiale degli Arditi, poteva succedere – e comunque non c’entra niente. Il fatto è che Prezzolini non fu sanguinario ma nemmeno “nazionalista”. E quanto a Benedetto Croce, che secondo Ponzani avrebbe piuttosto dovuto essere citato da Meloni, Prezzolini ne era allora un filiale discepolo, e lui un paterno maestro, pur contrario al tasso di ubriacatura che ne aveva progressivamente segnato l’impegno interventista. Prezzolini si distinse fino alla rottura sia dal nazionalismo dei Corradini Marinetti e simili (“il nazionalismo è una mutilazione dello spirito”), sia dall’esaltazione dei Papini e Soffici, e ancor più dal dannunzianesimo. Dichiarò un proprio “internazionalismo”, che metteva l’uomo prima dell’italiano, nemico delle motivazioni imperialiste, espansioniste e anche irredentiste. Posizione che si tradusse nella assai impopolare perorazione per le autonomie dei popoli slavi, per la Dalmazia slava, e addirittura nella pubblicazione, assieme a un F. Skarlovnik, di un “Manualetto italo-sloveno ad uso di ufficiali, soldati, commercianti, funzionari e di ogni persona che voglia rapidamente imparare la lingua slovena” (Firenze, 1915), ristampato ancora nel 1923. Se quelle terre fossero state occupate dall’Italia, arrivò a dire, lui sarebbe accorso alla loro difesa. E ai triestini raccomandava di imparare lo sloveno.
A Ponzani interesserà che Prezzolini argomentò, nella sua idea (presto disillusa) di un popolo spiritualmente rigenerato dalla partecipazione alla guerra, il diritto al voto alle donne. La sua posizione fu più simile, anche nello strenuo antigiolittismo, a quelle di Salvemini e dello stesso Sturzo, e soprattutto, nel sentimento di una vocazione generazionale, a quella di Renato Serra. Fra il novembre 1914 e l’aprile 1915 – quando decise di andare volontario, benché esonerato e fuori età – Prezzolini fu il corrispondente romano del “Popolo d’Italia” di Mussolini, il cui salto interventista fu apprezzato inizialmente dallo stesso Salvemini. (E poi c’era quel titolo di Gramsci, sulla “neutralità attiva e operante”). Molti anni dopo, Prezzolini scrisse: “C’ero andato / al Popolo /… per sostener l’intervento dell’Italia nella guerra mondiale: una cosa di cui mi pento. Ma allora mi pareva d’obbedire a una missione”. Nel diario dell’esperienza militare, in caserma e al fronte, Emilio Gentile segnala perfino un’affinità col più giovane Gadda.
Non ho letto il povero Sangiuliano su Prezzolini. Ho letto a suo tempo, che non è mai scaduto, Mario Isnenghi, e poi Emilio Gentile, di cui almeno si può vedere la voce per il Dizionario biografico degli Italiani, e ascoltare l’efficace lezione all’Accademia delle Scienze torinese, 2015, in rete. Sempre in rete si può leggere il saggio recente (2022) di Maria De Paulis, “Giuseppe Prezzolini e ‘La Voce’: dall’idealismo militante all’interventismo antitedesco”.
Nel rimpianto per la sorte di Cesare Battisti, pesa il suo mancato giudizio sulla guerra come si era rivelata. Vorrei ricordare, degli appunti amari di Prezzolini (“il crollo finale alla resistenza morale del soldato, fu dato dalla riduzione del vitto”) il passaggio in cui denunciava l’errore “di inviare sul fronte, e pare sul settore dove i tedeschi poi attaccarono, gli operai di Torino, ai quali per fatti quivi avvenuti, era stato tolto l’esonero: agirono da propagandisti e divennero centri di panico”. Gli operai di Torino li aveva conosciuti bene, insieme a Gramsci e a Gobetti.
Nei cent’anni che è durata la vita di Prezzolini ciascuna e ciascuno può pescare le citazioni che servono alla sua propaganda. E’ certo che “l’interventismo” (lasciamo stare la sciocchezza sfuggita sul “sanguinario”) non è un’imputazione adeguata al bagaglio culturale di Giorgia Meloni, non più dei cinquant’anni di Michael Jackson.