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piccola posta

Che i missili di Teheran non distraggano dai sette morti di Giaffa

Adriano Sofri

La strategia di Netanyahu è cambiata, ma occhio al futuro: ha appena promesso il cambio di regime in Iran, che è altra cosa dal proposito iniziale, disperato, di trascinare gli Stati Uniti in una guerra con Teheran

La strategia, se non ce l’hai, e se non ti fermano in tempo, te la trovi per strada. Quando Putin ordinò il défilé che avrebbe preso Kyiv, la sua strategia si riduceva a fare un boccone dell’Ucraina e infeudarsela fra i fiori e le medaglie, come la Crimea. Quando Netanyahu si fu ripreso dall’orrore del 7 ottobre, e dalla sua vergognosa compromissione, la sua strategia si riduceva al tentativo di durare un giorno di più e scatenare una vendetta senza esclusione di colpi. Le analogie fra le due “guerre” finiscono qui, nonostante le generose assimilazioni, cui lo stesso Zelensky ritenne di cedere. L’Ucraina aveva contro, dentro il proprio territorio, una potenza di armi e di uomini incomparabile, e svelta a far pesare il suo arsenale atomico. L’arsenale atomico che, non nominato, era e resta la riserva di un Israele accerchiato.

Strada facendo, Putin e i suoi bigotti di corte misero insieme la scena maestosa della rivalsa dei popoli tradizionali contro l’impero dell’occidente al suo, appunto, occaso; con un impudente sprezzo del ridicolo, e rassegnandosi a essere non la guida del nuovo ordine mondiale, ma il suo servizio d’ordine. La Nato, e per lei gli Usa e la stessa Ucraina, stupefatte di una resistenza mirabile, si erano fatte prendere a loro volta da un’euforia tattica e avevano immaginato maturo il cambio di regime russo. Là, dopo la controffensiva sorprendente di Kharkiv e Kherson dell’estate 2022, ucraini e alleati commisero il capitale errore di sbandierare il nome di vittoria. Il successo già conquistato – “la Russia se non vince perde, l’Ucraina se non perde vince” – si mutò nel contrario, la controffensiva del 2023 troppo annunciata non avvenne, ed era ora la Russia a vincere se non avesse perduto, e la Russia delle atomiche per definizione non può “perdere”. Al cambio di regime andò vicino Prigozhin, e riuscì in una parodia. Oggi non c’è uscita che non sia un compromesso, e non possono essere gli ucraini a proporlo – salvo un disastroso ribaltone interno – e piuttosto qualche resto del mondo a imporlo, a condizione di tagliare le unghie a Putin. Aver chiamato “piano per la vittoria” invece che per la pace, la proposta ucraina, è, temo, una persistenza nell’errore. Il saggio Biden, come chi è quasi fuori gioco, ha ricevuto Zelensky e il suo piano dichiarando che l’Ucraina ha vinto. Non c’è più bisogno di promettere vittorie.

Netanyahu ha appena promesso il cambio di regime in Iran: è la sua strategia, e l’ha annunciata al popolo iraniano – compreso l’eccesso di zelo, “persiano”, la Persia di Ciro o dello scià. E’ altra cosa dal proposito iniziale, disperato, di trascinare gli Stati Uniti in una guerra con l’Iran (non ebbi dubbi su quel proposito, né ne ebbe Giuliano Ferrara, che però lo condivise: al mattatoio di Gaza lui ha saputo rassegnarsi, addebitandolo intero agli invasati di Hamas). A cambiare il paesaggio non è stato lo sfoggio di potenza su Gaza: quello non ha fatto che macchiare il nome di Israele ed esaltare il martirologio coltivato da Hamas. E’ stata piuttosto la sequenza libanese dei cercapersone e dei walkie-talkie, non solo perché ha preparato il colpo fino a poco prima impensato contro Nasrallah, ma perché ha rivestito la superiorità di Israele di un culmine sulfureo di astuzia e perfezione tecnica, qualcosa che abbatte e demoralizza. E, rimpiccioliti di colpo pasdaran siriani e hashd-al shaabi iracheni e artiglieri yemeniti, ha messo direttamente di fronte un Iran spaventato e un Israele sicuro di tenere in pugno gli Usa, almeno fino alla nuova presidenza. Un mese, direbbe Netanyahu accorciando Begin, per noi ebrei vale un’eternità – e per lui specialmente. A questo punto, col titolo di Ordine Nuovo, la decisione di guadagnarsi un giorno dietro l’altro all’azzardo, al rialzo, è finalmente apparsa come una strategia, e così lui la ostenta. Il nuovo ordine è un vicino oriente in cui l’Iran teocratico non esista più, o, se sopravviva fuori e dentro, esca ridimensionato drasticamente nelle sue ambizioni egemoniche, e i grandi sunniti se ne compiacciano. E intanto che la attenuazione, fino a una cancellazione di fatto, dell’ostilità fra sunniti e sciiti, che a Gaza soprattutto era progredita, sprofondi nella fossa di Beirut in cui è morto Nasrallah. E nelle processioni che lo invocano erede del martirio dell’imam Husayn a Kerbala e si battono i petti maledicendo il traditore Yazid.
Fino al micidiale scherzo infantile dei cercapersone, ci si era chiesti fino a che punto sarebbe arrivato Hezbollah. Dopo Nasrallah, ci si è chiesti fin dove sarebbe arrivato l’Iran – fin dove Netanyahu l’avrebbe costretto ad arrivare. Una volta che l’Iran fosse in gioco senza più riserve, ci si chiederà fin dove arriverà la Russia, o la stessa ipocrita e parassita Turchia, o l’Iraq della maggioranza sciita… Resta il fatto che l’Israele dell’estremismo messianico, dei coloni e della negazione dei palestinesi, l’Israele che ha messo in gioco la propria sopravvivenza di stato e ha suicidato la propria anima presso tanta parte della diaspora e della gioventù del mondo, si è trovato a rivolgere all’Iran di donna vita e libertà una promessa di liberazione, quella che Zelensky avrebbe rivolto alla Russia se avesse saputo, e se la Russia non avesse così saldamente in pugno il vecchio knut e le vecchie bombe atomiche.

Nel giro di un anno, per effetto di un’impresa di cuori efferati e di deltaplani e altri congegni derisori, tutti i troni del vicino oriente, nessuno escluso – tanto meno l’israeliano – sono scossi da vicino, personalmente, per così dire. Pensate meglio a quello che è successo martedì in Israele. Che il suo cielo è stato solcato dai duecento missili balistici, non tutti mandati a vuoto. E che in un viale di Giaffa due attentatori hanno ucciso 7 cittadini israeliani, e feriti altri 6. I due, decisi a morire, erano venuti ad ammazzare uno con un fucile e l’altro con un coltello, si è detto: un bilancio che in famiglia sarà loro accreditato. Può darsi che i missili iraniani, vanitosi dei loro 2.000 km di gittata, finiscano insieme ai proclami roboanti dei loro turbanti presi a scappellotti dalle ragazze sulla strada. Può darsi che i due uomini scesi dal tram a Giaffa col fucile e il coltello siano il futuro.

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