piccola posta
Tra le bici dell'Eroica e l'antieroe di “Lance deve morire” di Giovanni Battistuzzi
Un romanzo che ha due protagonisti, se si può dire, uno in luce uno in ombra: uno è Lance Armstrong, l’altro è nessuno, benché si chiami Fausto. Un Armstrong troppo forte per non essere sospetto di prendere della roba, come Pogacar ora
Gente fulminata di ciclismo. Gente di volontà metallica. Nel fine settimana alcune migliaia di cicliste e ciclisti sono venuti a correre L’Eroica vicino a casa mia, partenza da Gaiole in Chianti. Correre più o meno, perché non è una gara e nessuno vince, e le biciclette risalgono a prima del 1987, e l’abbigliamento anche più in là. E’ l’unico aspetto che la fa confrontare con quello che succede attorno, l’immagine di una battaglia senza vincitori né vinti, e con la proibizione di armi recenti. Io non c’ero, manifesta inferiorità, c’era però Giovanni Battistuzzi, ciclista, amatore, giornalista, scrittore, che da qualche anno è il mio rinnovato legame con il ciclismo. Non che lui trascuri il ciclismo agonistico, al contrario. Ama i campioni che “allungano il ciclismo”, che annullano l’attesa paziente e distratta delle prime ore, riservate al gruppo o alle schermaglie dei gregari: che possono partire in qualsiasi momento, e non guardarsi nemmeno indietro, perché sanno che dietro non c’è nessuno. Quelli forti non si girano mai.
Battistuzzi (d’ora in poi GB) ha scritto poco fa un romanzo, Lance deve morire (Mulatero Editore, 270 pp., 17 euro), che ha due protagonisti, se si può dire, uno in luce uno in ombra: uno è Lance Armstrong, l’altro è nessuno, benché si chiami Fausto. Armstrong era troppo forte per non essere sospetto di prendere della roba, come Pogacar ora. Pogacar ha vinto il Giro dell’Emilia l’altroieri, non lascia niente al prossimo suo, nemmeno le briciole, quest’anno aveva vinto il Giro d’Italia, il Tour e, nemmeno dieci giorni fa, i Mondiali a Zurigo, andando in fuga a 100 km dall’arrivo, e restando solo per 51. Achille almeno aveva il tallone. Dunque ai tipi così si addebita la roba, epo e sangue, è la roba che spiega fughe e salite sovrumane. Tipi che, come Armstrong, sconfiggono anche il cancro. Che provano che si può ogni volta ripartire e fare meglio di prima. Che restano in piedi sui pedali anche quando non è più salita. Che inesorabilmente vincono.
Nella vita c’è bisogno di qualcosa che si sa come va a finire. Può essere Pantani, o Francesco Moser, o Saronni, se si è fighetti Anquetil. O Eddy Merckx, che così ce n’era uno solo. Nessuno come Armstrong, perché era disperato. Ed ecco che una volta Lance va da Oprah Winfrey e a cinque domande risponde cinque sì: sì, ha preso le sostanze per ogni Tour vinto, sì, nessuno può vincere sette Tour senza doparsi… Le sue vittorie, i suoi sette Tour di seguito, vengono cancellati: sette spazi bianchi, sette righe tagliate di traverso su Wikipedia. Nomi e cognomi abrasi dagli albi d’oro. Una vita nulla e non avvenuta. Che cosa avverrà di Fausto, che ha modellato la propria vita sulla sua, ha debellato il proprio cancro, ha trovato il proprio grande amore e l’ha fatta compagna della sua devozione, con lei l’ha seguito a bordo strada, ai bordi di tutte le strade?
Nella professione di fede del tifoso c’è un investimento che lo conserva bambino, e che danna chi gli avrà dato scandalo. GB non prende la discesa, non se ne accontenta. Fausto è un impostore, almeno quanto il suo eroe. Di più: non ha vinto nemmeno una tappa di qualcosa. Ha una pistola, può spingere fino in fondo la propria impostura, e far fuori Armstrong (che è vivo, ha 53 anni). Oppure rivolgerla contro la donna del suo grande amore, che ha il torto di essere stata tradita da lui. Oppure rivolgerla contro di sé. Oppure ancora non farne niente. Vite nulle, e non avvenute.
Mi sono chiesto che cosa abbia così colpito GB, una storia così estranea a lui, come lo conosco. Una storia d’altri. Non credo un attacco amaro contro la falsità di ogni grandezza: non si addice a un ciclista amatore, un ciclista per amore. Forse la rivelazione della bruttezza delle grandezze usurpate, degli eroi e di chi sta loro accanto, nel selfie all’arrivo.
“Non li calcola mai nessuno i ciclisti. Neppure li vedono. Li investono, quello sì, ma non li vedono mai. Dicono sempre: non l’ho visto”. Dunque non so se ho capito che cosa abbia inteso raccontare GB. Non una facile smitizzazione dei campioni: i campioni ci sono, ogni volta di nuovo, e anche quando si sia speso il superlativo, il Campionissimo, se ne troverà un altro. Ed esiste anche una magnanimità dei gregari, di quelli che soffrono per definizione senza che la sofferenza sia riscattata dalla vittoria, come per i campioni, una vita da gregario, una vita da mediano. Forse la questione riguarda il gregarismo senza ciclismo, il tentativo di tenersi su a sbafo da uomini d’ombra – un desiderio di immaginare morta la propria donna, perché ci se ne è lasciati conoscere.
(C’è un punto in cui l’antieroe di GB chiede: Ci si è mai ricordati, magari vent’anni dopo, di uno che sia arrivato quarto? Be’, ora è successo, e nello stesso anno. – “Guai ai quinti!”).