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piccola posta

Iran, Israele e medio oriente tutto. I nodi sono davvero venuti al pettine

Adriano Sofri

Un avvenire fluido fra disarmi insperati e guerre senza confine. Quant'è difficile immaginare come l’attacco israeliano possa spingere i cittadini iraniani a schierarsi a difesa del regime o all’opposto, a mobilitarsi

Ieri era anche la Giornata mondiale contro la pena di morte. L’Iran ha il record mondiale delle esecuzioni capitali. Ci ricordano che dall’entrata in carica del “riformista” Masoud Pezeshkian, alla fine di luglio, le esecuzioni sono state 255. In due giorni, 1 e 2 ottobre, le impiccagioni sono state 30. Vengono sbrigate al chiuso delle galere, poche – sette, forse, quest’anno – sono state ancora eseguite in pubblico. Chissà se Netanyahu, dopo essersi proposto al popolo iraniano come il liberatore, ha preso in considerazione la possibilità di bombardare, di precisione, una forca. Sarebbe abbastanza “sorprendente”, no?

Dopo il discorso rivolto da Netanyahu “al grande popolo persiano”, e ripetuto ai libanesi, sono venute, com’era inevitabile, le repliche di oppositrici e oppositori iraniani, dentro e fuori dall’Iran: nette nel rivendicare che la liberazione non potrà venire che dall’interno del paese. Voci esemplari di donne coraggiose sono state raccolte da Gabriella Colarusso per Repubblica. “Non sarà Netanyahu a portare in Iran la libertà che cerchiamo. Il cambiamento può venire solo dall’interno e in maniera pacifica, con l’aiuto di tutta la società”.

Intanto, la gran parte degli esperti, per stare a questa definizione, sostiene che una gran maggioranza di cittadini iraniani, almeno oltre il 70 per cento, è contraria al regime e se ne augura la caduta.

Ora, il problema delle guerre è che travolgono le persone e le loro scelte più ancora che non facciano gli uragani più devastanti. Una volta scatenata la furia, alle persone che non si arruolino resta di provare a mettere in salvo i loro cari e di aspettare che passi la nottata. E’ difficile immaginare come l’attacco israeliano spinga i cittadini iraniani, le coraggiose e i coraggiosi di Donna vita libertà, a schierarsi a difesa del regime dei carnefici, o all’opposto, a mobilitarsi per trasformare la guerra di fuori in guerra civile. D’altra parte è proprio l’ampiezza e l’audacia del movimento succeduto al supplizio di Mahsa Amini a mostrare come nei rapporti di potere vigenti al mondo d’oggi le ribellioni popolari siano destinate a soccombere alla repressione. Una schiacciante storia recente prova lo scacco di progetti, sinceri o strumentali che siano, di esportazione della democrazia e della libertà sugli scudi dei vincitori, in Iraq o in Afghanistan; o, viceversa, la liquidazione di ribellioni di libertà, radicate e abbandonate alla vendetta, come a Hong Kong. La guerra cambia tutto.

Mentre la risposta israeliana, un’altra tappa nel percorso avventuroso di botte e risposte, sta per compiersi sui bersagli iraniani o loro alleati – forse si è già compiuta, mi prendo un piccolo tempo di vigilia – siamo di fronte, il popolo iraniano si trova di fronte, al paradosso di un’Israele che, nell’azzardo di chiudere una partita che gli fa sentire minacciata la sopravvivenza o, che è altra cosa, fa sentire minacciata la sopravvivenza di un suo modo di governo, pretende di presentarsi come un esportatore, o, più prudentemente, un facilitatore, di libertà e democrazia. Da molto tempo le ribellioni popolari, e il loro cuore, quelle che hanno al centro la condizione delle donne e l’accanimento degli Stati ad asservirne i corpi i capelli e i pensieri, non riescono a trasformarsi in rivoluzioni. E oggi il paradosso si presenta proprio nel punto in cui è scoperta e intima la posta – turbanti e guardiani della virtù opposti mortalmente a donne e giovani vogliosi di libertà – e più compromessa l’offerta, da parte di un governo israeliano grave di una falcidie di vite umane, di donne e bambini – e uomini – a Gaza e in Cisgiordania e forse in Libano. Dice ancora la giovane militante, architetta, Yeganeh: “Nessun paese straniero può cambiare l’Iran, tantomeno uno stato che commette crimini a Gaza e in Libano”.

Le iraniane, gli iraniani, non sono arabi se non in una piccolissima parte, e sono farsi, azeri, curdi, qashqai, baluci; e sono sciiti. Il mandato a Hamas è solo degli ayatollah. Tra Israele e Iran è in ballo il rischio incalcolato di una guerra senza confini, e l’eventualità di un cambiamento di regimi finora imbattibili. E poi, anche nell’ipotesi meno spaventosa, il tracollo di un regime non ha un’alternativa alla sua portata. Un Iran conteso fra oltranzisti religiosi, mujahiddin del popolo riformati, eredi dello scià, fanatici etnici, fazioni tribali e bande maneggiate dall’esterno: una prospettiva cupa, una Libia moltiplicata per cento, uno spazio alle scorribande alla Wagner. L’Arabia Saudita non piangerà di un Iran ridimensionato, ma dà e ostenta segno di non volerlo troppo castigato, con la conseguenza di perdere molto della propria forza contrattuale. Qualcuno vorrà tuttavia rassegnarsi a un regime di mullah e pasdaran, finalmente dotati di un arsenale nucleare? I nodi sono davvero venuti al pettine. Dal fondo non si può che risalire, dirà un resto di speranza. Un disarmo, di materiali e di animi, come avviene di colpo in certe risse di ubriachi. Ci crediamo?

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