piccola posta
Se c'è il nemico, allora è impossibile esaurirne la presenza nell'amore
Nelle guerre e nelle migrazioni, ambedue questioni di confini violati, riviviamo l'episodio del samaritano. Spunti a partire dalla cronaca, da Franco Marcoaldi e da un intervento di Recalcati
Ieri. Leggo l’ennesima cronaca di Lorenzo Cremonesi sul Corriere, dal fronte di Kharkiv, dice del paio di milioni di soldati in servizio o veterani in congedo sofferenti, secondo il ministero ucraino della Sanità, di “stress post traumatico”. Nessun pacifista odia la guerra come chi la conosce e la combatte.
Ieri. Leggo nelle prime pagine di Franco Marcoaldi, I cani sciolti, appena uscito per Einaudi, la citazione del giovane americano protagonista di Addio alle armi che si arruola volontario sul fronte italiano nella Prima guerra e via via cede al disgusto e all’orrore, fino al punto di non sapere più, lui come gli altri soldati, se sia meglio la vittoria o la sconfitta. E di disertare, di fare “una pace separata”. Esperienza analoga a quella di Marcoaldi padre, alto ufficiale, internato dopo l’8 settembre. Da tempo ormai immemorabile mi arrovello attorno alla Prima guerra, per la convinzione ancora un po’ riluttante che il più vero ripudio della guerra non appartenne né ai pacifisti che la rigettarono per ragioni morali o religiose, né ai (pochi) internazionalisti che si tennero fedeli alla dottrina dell’estraneità dei proletari alla guerra dei padroni, né, tanto meno, ai fautori della trasformazione della guerra fra gli Stati in guerra civile, ma alla gamma di interventisti democratici che dovettero riconoscersi ingannati nel fango universale delle trincee. Dei più commoventi, quelli che, come Cesare Battisti, si erano lasciati travolgere oltre la propria stessa indole dall’entusiasmo combattente, e non ebbero il tempo di uscire dal silenzio che gli succedette. Nella mancata conciliazione fra quelle opposte vocazioni stette la catastrofe del dopoguerra europeo.
Ieri. Leggo l’intervento di Massimo Recalcati a un incontro veronese, Repubblica lo intitola “Ama il tuo nemico come te stesso”. Sono curioso di vedere come se la cava. Ci siamo abituati a sentire magnanime parole come: “Non esistono nemici, ma solo avversari”. Intorno si massacra e si è massacrati all’ingrosso e al dettaglio, con rassegnazione o con furore. La Scrittura non dice che non esistono nemici, solo avversari. Dice bensì, sfidando il buon senso, di amare il nemico, ma lo chiama nemico. Dice in verità, fin dal Levitico, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, ma il prossimo non è solo né tanto il vicino, il simile, ma lo straniero, il dissimile. Anche, dice Recalcati, il dissimile dentro di sé. (San Bernardo deplorava Pietro Abelardo come “homo sibi dissimilis, intus Herodes, foris Joannes, totus ambiguus”, bellissima espressione, uomo da sé dissimile – dissomigliante, dissidente, Erode dentro, Giovanni fuori, interamente ambiguo – condanna a sua volta ambigua). Recalcati segnala lo scandalo cristiano nel prossimo mutato nello straniero, e straniero e inviso è infatti il samaritano, ma va oltre per definirlo come il “remoto”. Motivato da un riferimento a Nietzsche, questo “salto” mi sembra far perdere il senso pieno della “prossimità”, che non è una vicinanza data, ma la coincidenza inaspettata con l’altro, in viaggio o in agguato, straniero e remoto e forse nemico, che sul suo cammino si è imbattuto in chi ha bisogno di aiuto, e dai suoi vicini anagrafici, il sacerdote, il levita, è stato ignorato: il lontano non astrattamente pensato e amato, ma fattosi vicino e che come vicino si è comportato. (Non smette mai di rinnovarsi, la parabola, collocata com’è sulla strada di Gerico). Non penso che Recalcati voglia dire qualcosa di diverso, in sostanza. E’ un fatto che il nostro tempo rivive l’episodio del samaritano nelle due circostanze cruciali della guerra e della migrazione, ambedue questioni di confini violati. Nella guerra, dove il nemico non può che restare il nemico, fino a quando almeno non cada, ferito o prigioniero, e dunque fatto prossimo. Nella migrazione, che porta vicino di colpo e avventurosamente il più lontano ed estraneo e lo fa sentire minaccioso e tacciare di nemico, salvo che capiti ormai senza speranza alla portata di un peschereccio. L’una e l’altra, guerra e migrazione, così simili e così intrecciate, aspettano di uscire dalle trincee e di corrersi incontro ad abbracciarsi – non avverrà senza la sconfitta del nemico, senza le sconfitte dei nemici.
Recalcati ricorda, per respingerlo, lo scetticismo di Freud verso il precetto, dichiarato irraggiungibile, dell’amore per il prossimo. Elsa Morante diceva, rovesciando la cosa, che del precetto “ama il prossimo tuo come te stesso”, era la seconda parte, l’amore per se stessa, che le sembrava irraggiungibile. Che non è solo un paradosso poetico o amaro, se è vero che ciascuno ha una parte irriducibile di sé, e che l’amore per il prossimo non è destinato a realizzarsi sanando senza residui la lacerazione con l’altro. Il precetto più impervio sembra diventare: “Ama te stesso come te stesso”.
L’impossibilità e insieme la felicità dell’amore per il prossimo sta nella gratuità. Recalcati dice che l’amore per il prossimo è a fondo perduto. “La vera gloria non è mai dell’amato ma dell’amante”. Che sfiora la bestemmia: non di Gesù, ma della Maddalena, di Tommaso, di chi vorrebbe toccarlo ancora una volta, e non può. Il punto più irrisolto, comunque, resta per me non quello della difficoltà dell’amore ma l’altro, il riconoscimento dell’esistenza del nemico. “Amate il vostro nemico, vogliate il bene di chi vi perseguita”. Se c’è il nemico, è impossibile esaurirne la presenza nell’amore. Se c’è il nemico bisogna combatterlo – forse senza odiarlo? Non so, è troppo anche questo. Forse dilazionando la possibilità dell’amore, fino alla pace, fino all’armistizio – al cessate il fuoco, alla tregua? Fino a quando la morte non avrà cancellato l’inimicizia? Anche tutto questo vuole sembrare troppo.