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Il ginepraio della Gpa, tra l'augurio a non "stemperare i toni" e gli argomenti tattici

Adriano Sofri

La posizione favorevole, se non “alla Gpa”, alla piena libertà della donna di disporre del proprio corpo, addebita alla contrarietà radicale di Cavarero e le altre di assecondare l’attacco reazionario a quella libertà

Tutta la città di Radio3 ha trattato mercoledì mattina della gestazione per altre persone, decretata “reato universale”. Coraggiosamente, direi, perché sul tema c’è, oltre all’accanimento reazionario, un precipitato di tutte le posizioni che un tempo si sarebbero dette femministe, e oggi a volte si alleano altre si oppongono al movimento, frastagliato anche lui (lei), lgbtqia+. La durezza dell’opposizione era esemplarmente rappresentata da Chiara Lalli e Adriana Cavarero. Il prossimo sabato, in un festival di storia del Novecento promosso a Forlì da “Una città”, e dedicato quest’anno ai “Femminismi”, parteciperò, con il mio amico Wlodek Goldkorn, alla presentazione del libro ultimo di Cavarero e Olivia Guaraldo intitolato, programmaticamente, “Donna si nasce” (sottotitolo, piccolo: “E a volte si diventa”), Mondadori. Invitato senz’altro per incompetenza, ho aderito volentieri a quella che mi sembra un’ottima occasione per ridurre ignoranza e ritardo. Al di là della mia condizione certa di nato di donna – e, per dirla con Vera Gheno, di “maschio etero cisgender, senza disabilità / la mia vecchiaia non è per sé tale /, neurotipica e con corpo conforme, / relativamente / benestante, dunque senz’altro privilegiato – mi astengo dal prendere posizione sulla Gpa, e sto a osservare lo scambio di colpi, sperando che la partita, per dire così, non si concluda per squalifica (tanto più che non c’è un arbitraggio), e anzi che non si concluda affatto. Nonostante il governo abbia creduto di metterci sopra una pietra tombale.

Contento dell’invito forlivese, perché ho conosciuto e stimo le due autrici, avevo del tutto sottovalutato l’accanimento dei dissensi, che ho appena misurato con la lettura del libro e di una rinfusa di altri testi, e con gli avvertimenti che altre donne, che conosco e stimo, sono state così premurose da spedirmi.

Mi guardo dall’augurare di “stemperare i toni”, concetto sputtanato e inevaso. Sebbene che non siamo donne, abbiamo sperimentato le nostre “guerre per un paragrafo”, eredi mascherate delle guerre di religione, e siccome eravamo maschi venivamo più leggermente alle mani. Però nella divergenza fra militanti dei femminismi e dei movimenti lgbtq+, si evoca dall’una e dall’altra parte – fingiamo per brevità che le parti siano due, in particolare sulla Gpa – oltre che argomenti forti e delicati di merito, un argomento tattico, cui la politica di sinistra con le sue ortodossie ed eresie ha pagato un micidiale tributo: l’argomento di “fare il gioco del nemico” (o dell’avversario, per chi fa finta che il nemico non esista). In particolare, la posizione favorevole, se non “alla Gpa”, alla piena libertà della donna di disporre del proprio corpo, compresa la decisione di ospitarvi una vita per altri, addebita alla contrarietà radicale di Cavarero e Guaraldi e altre di assecondare – se non di farsi complici – l’attacco reazionario a quella libertà, per giunta in un tempo in cui l’attacco si fa più virulento e si avvale, come nel caso italiano, dell’uso e dell’abuso del potere pubblico. Se ne è appena fatta per esempio interprete, se non fraintendo, Giulia Siviero sul Manifesto. L’obiezione, quando almeno non sia troppo ingiuriosa per essere considerata, appare rafforzata dai fatti. Il voto sul “reato universale”, così ottusamente e teatralmente perseguito da somigliare alla sbronza del penitenziario in Albania, per un fatto che era già sancito come reato, è palesemente un modo di infierire. Non dirò, come tanti, che il fine del governo è di moltiplicare le occasioni di “distrazione” del parco buoi dai “problemi veri”: perché i problemi sono veri, e perché nell’invasamento reazionario c’è una voluttà vera e intima. Il culmine sta nell’idea di Eugenia Maria Roccella – conobbi anche lei un tempo – di fare dei medici “di famiglia” (a proposito) altrettanti delatori legali e forzati del delitto di lesa maternità. I medici hanno prontamente risposto, com’è inevitabile quando si passi il segno. E io, per correggere quello che ho detto del culmine, incito Roccella a reclutare fra i delatori obbligati e premiati i preti confessori, nel cui orecchio la buona tradizione raccolse esemplarmente i segreti di donne (benché non altrettanto degli uomini gay).

Nei minuti che correvano della trasmissione (cui partecipavano “per competenza” un neonatologo, Gianpiero Donzelli, e per esperienza vissuta un regista, Marco Simon Puccioni) il giudizio sul “reato universale” è finito in disparte, e la discussione ha ricalcato quella che dall’inizio ha accompagnato la gestazione per altre/altri e le sue denominazioni varianti, fino a quella, che è un giudizio, di utero in affitto. Non mi convince il ricorso reciproco alla “statistica” (alla casistica sì, in generale), ai numeri per definizione scarsi e provvisori delle pratiche di minoranza. Al punto debole dell’argomento “tattico”, sia pur rafforzato dalla cronaca dell’aggressività “di destra”, mi pare invece che risponda un punto forte dell’argomento polemico “strategico”, se non altro perché rimanda al lungo periodo, del femminismo della differenza avverso alla Gpa. Che è la rimozione del limite, di fronte a una velocità e voracità tecnologica di cui non si vede una fine, o se ne vedono diverse. Al di là dell’utero artificiale e delle macchine gestanti, c’è anche l’orizzonte della fine della riproduzione della specie. L’idea che piacque energicamente a uomini come il marchese di Sade, e più timidamente sulla sua scia a Pier Paolo Pasolini. Chissà che la fine della vita sulla terra, così incombente, non diventi anche lei, con una mossa del cavallo, “una scelta”.

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