Sarah McBride, prima transgender eletta al Congresso statunitense (Ansa)

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Non esiste il progresso, ma i progressi sì, e in America sono stati ricacciati indietro

Adriano Sofri

Sarah McBride è la prima persona transgender eletta al Congresso, rappresentante del Delaware. Sembrava un indizio di successo dell’assalto al cielo. Ma l’elezione di McBride e il plebiscito per Trump non si contraddicono: si spiegano a vicenda

La sensazione di assistere in diretta, in una notte, alla fine di un mondo. L’ennesima, certo. La fine del mondo è ancora posposta, a data da destinarsi, benché con una certa urgenza. Del resto, quando lo spettacolo di una notte si compie così a menadito, vuol dire che tutte le condizioni si erano già depositate. Alla vigilia stretta il giocatore d’azzardo che sequestra Israele aveva fatto la sua mossa, l’ennesimo tutto per tutto anche lui. Che illusione pensare di avversare Trump sostenendo Netanyahu. La fine di un mondo è una caratteristica sensazione senile. Ma Donald Trump è un vecchio anche lui, tinto com’è. La sua mezz’ora di sproloquio della vittoria era quella di un padrino scaduto. I vecchi che sanno di esserlo, che hanno un paio di epoche alle spalle, alla fine della notte si erano accomodati al loro posto, nella poubelle de l’histoire. Era arrivata, nella notte, la notizia della prima persona transgender eletta al Congresso, Sarah McBride, rappresentante del Delaware. Sembrava un indizio di successo dell’assalto al cielo. Ma l’elezione di McBride e il plebiscito per Trump non si contraddicono: al contrario, si spiegano a vicenda. Non c’è idea più ingannevole di quella delle avanguardie. Il cielo è lontano, lo zar è vicino.

Tutta la campagna per la presidenza era rotolata via quasi casualmente, passando da uno slogan all’altro, cercando un accidente cui appigliarsi, un tema cui reagire. Fino ad assestarsi su un centro, com’era ovvio dopo che l’infortunio di Biden, la vecchiaia, aveva candidato una donna, per la seconda volta, e una donna di colore, per la prima volta. La partita che segna il pianeta e le sue guerre, del sesso e della sessualità, culminava nella gara per la Casa Bianca. “Speriamo che sia femmina”, così gli eccellenti titolisti del Manifesto: sono usciti quando era maschio, e di quella risma. Si può pensare che ci si sia andati vicino: donne, ancora uno sforzo. Credo di no, e che abbia prevalso la reazione che sta attraversando il mondo, compresa la vecchia Europa. La festa della vittoria aveva attorno figli, nipoti, una First Lady riluttante come una reliquia di prostituzione sacra. E il terzetto di attori, Trump, il suo stolido vice, ed il modesto Elon Musk, il genio di tutto ciò che è d’artificio, il vero usufruttuario.

Che non esista il progresso è cosa nota. Esistono tuttavia i progressi, e ieri negli Stati Uniti sono stati ricacciati indietro di brutto, come avviene dispersivamente in Europa, che non ha una vera presidenza, dunque è ingoiata in una quantità di buchi neri. E guai a confidare in una intelligenza comune e solidale: uomini e donne d’Europa giocano donne di Gaza contro donne di Teheran. Trump, si avverte, ama le donnine e gli affari, odia le guerre. Può darsi. In Ucraina – nella martoriata Ucraina – ieri erano molti a volerci credere. Il gesto più offensivo nei confronti dell’Iran lo ordinò lui, all’aeroporto di Bagdad, l’uccisione di Qassem Suleimani e soci. Il mondo di ieri. C’erano quattro tabù, all’ingrosso. Cose da non nominare invano, tutte eredità del 1945. L’atomica – mai più. Auschwitz, la Shoah – mai più. Il nazismo. Lo stalinismo. Sono caduti tutti, uno dietro l’altro, nei nostri giorni. L’atomica alla portata di tutte le bocche, di tutte le tasche. La Shoah vilipesa, abusata e rinfacciata. Il nazismo rimbalzato da un fronte all’altro della guerra europea, rimesso all’onore del mondo tedesco, i suoi generali rimpianti dal cialtrone Trump. Il comunismo “reale” rianimato dagli spiriti rossobruni. Un mondo senza tabù: il paradiso, prima della mela. La terra, prima del diluvio. Alleluja.

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