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Volodymyr salvatore di bambini: forse un altro caso Schindler, forse una leggenda di guerra
Nello Scavo di Avvenire aveva orecchiato racconti su bambini salvati dal rapimento degli occupanti russi nella fatale città di Kherson. Il protagonista era Volodymyr Sahaidak, direttore di una comunità per minori. “Il salvatore di bambini. Una storia ucraina” è in libreria
“Il salvatore di bambini. Una storia ucraina”. Si chiama Volodymyr Sahaidak (pronuncia: Volodýmyr Sagaidàk) e in questi giorni era in Italia, insieme a Nello Scavo, che ha raccontato la storia sua e dei suoi bambini (per Feltrinelli, pp. 143, 16 euro). Non era stato facile scovarlo, ed estrarlo dalla sua avventura. Scavo è uno che nel mondo delle disgrazie gira con le orecchie dritte, e aveva orecchiato pezzi di racconti su bambini salvati dal rapimento degli occupanti russi nella fatale città di Kherson. Kherson era stata l’unico capoluogo di oblast’ “conquistato” dall’invasione russa del febbraio 2022, senza colpo ferire, solo grazie al tradimento di un sindaco fellone. La città delle vacanze di angurie e di deserti di sabbia alla foce del gran Dnipro, restituita all’Ucraina dalla controffensiva dell’autunno 2022 nella sua metà storica di qua dal fiume, e da allora “punita” con i bombardamenti quotidiani di un nemico frustrato.
Scavo sentiva di quei bambini e del loro responsabile, annotava, chiedeva, forse era, in piccolo, un altro caso Schindler, forse solo una leggenda di guerra. Una volta si diceva che i russi mangiavano i bambini, ora che li rubavano... C’era un canale Telegram che dava notizie anonime e puntuali sulle sparizioni di Kherson. Bisognava trovare un contatto. Il suo stringer locale, Slava – molto di più, autista, custode, virgilio, amico – fece valere la sua reputazione di inviato nelle guerre, nelle torture dei migranti, nelle sopraffazioni di mafia, e il giudizio intransigente sull’invasione, la serietà del suo giornale e dei programmi televisivi cui collabora. Si guadagnò la fiducia, e anche la provvidenza ci mise del suo, quando un fotografo di Kherson, che aveva rischiato cento volte la vita per documentare i delitti e le malvagità dell’occupazione riuscì a riparare a Zaporizhia e poi a Odessa, in maglietta calzoncini e sandali e nient’altro, macchine fotografiche comprese, ma dopo aver messo al sicuro le foto. Intanto Volodymyr aveva lasciato la sua casa per trasferirsi giorno e notte nella comunità per minori di cui era direttore, ed escogitava i modi per impedire o ritardare la deportazione dei suoi protetti. Istigava una trama di donatori segreti di cibo e medicine. Inventava parentele e pratiche di adozioni per chi non aveva più nessuno al mondo. Faceva, letteralmente, carte false: nomi falsi, grafie false, timbri falsi, malattie immaginarie vidimate da medici veri, lingue imparaticce, per poterli contrabbandare nei villaggi e consegnare ai custodi internazionali dei corridoi di uscita. Nascondeva, appena prima che gli squadristi occupanti li scoprissero, i filmati interni delle loro malefatte. Era a gara col tempo, l’intervallo che lo separava dalla “telefonata di Putin”, quella che avrebbe avviato anche lui alla camera di tortura e alla fossa comune. Fronteggiava fieramente i teppisti che irrompevano nella comunità contando sulla loro ubriaca soggezione all’autorità, all’Apparàt.
Alla fine, il suo daffare vale la salvezza di tutti i 52 ragazzi che gli erano affidati, e di altri 15 orfani che gli hanno parcheggiato nel centro, e la sua furtiva documentazione – e gli stessi servizi di Scavo per l’Avvenire – entrano nell’inchiesta dell’Aja, quella ancora persuasa che i bambini non sono bottino di guerra, e che fa di Putin un ricercato internazionale. Dove ancora ci siano persone capaci di tenere in considerazione il diritto. L’umanità, cioè.