AP Photo/Hussein Malla

piccola posta

La Siria delle linee rosse valicate e delle mani rosse, di sangue

Adriano Sofri

Neanche l’avanzata dell’Isis, mostruosa e grottesca. Neanche il ritorno dei talebani a Kabul, con il presunto esercito regolare in rotta e l’armamento americano regalato. Non si è mai visto niente di simili alla conquista della Siria da parte dei siriani

Non avevo mai visto niente di simile alla conquista della Siria da parte dei siriani. Dei siriani che sono ancora ufficialmente 23 milioni e sono in realtà la metà, gli altri, i vivi, sfollati o profughi, e i morti, 500, 600 mila, sotto terra, o nemmeno. Neanche l’avanzata dell’Isis, mostruosa e grottesca, video di sgozzamenti e frontiere cancellate da Raqqa a Mosul e al Sinjar fino alla periferia di Erbil, e l’esercito iracheno in fuga, l’intero armamento americano nuovo di zecca abbandonato sul campo. Neanche il ritorno dei talebani a Kabul, con il presunto esercito regolare in rotta e l’intero armamento americano graziosamente regalato. Abu Muhammad al Julaniī, l’uomo del Golan, si è sbrigato a lasciare il nome d battaglia per riprendere il suo, Ahmad Husayn al Sharaa, e alla Cnn sembrava, gesti e abbigliamento, un distinto docente di Eton. Solo nella grande moschea degli Omayyadi è riassomigliato troppo al califfo al Baghdadi, ma fuori, barba compresa, attorniato dalla devozione entusiasta dei suoi, voleva ricordare più l’ingresso di Fidel e compagni all’Avana. Ha baciato la terra: “Come un papa”, ha scritto il bravo Andrea Nicastro – be’, “sceser con l’armi e a noi non fecer guerra / ma s’inchinaron per baciar la terra”. Mentre l’incredibile coalizione andava a palazzo a Damasco, gli americani (di Biden, agli ultimi fuochi) bombardavano i centri dell’Isis, e forse irritavano il già al Julani, e magari facevano un piacere al redivivo al Sharaa, ora che dovrà tenere a bada le migliaia di prigionieri del Daesh cui la galera non ha dato il tempo di azzimarsi. Comunque vada, e può andare malissimo, non c’era in giro un boia più sanguinario dello spensierato Bashar el Assad e dei suoi torturanti, e che sia volato via vivo non è una ragione di rammarico, perché il suo ospite moscovita saprà come avvelenargli la vita. Dal 2014 in poi girò per il mondo, nel 2016 in Italia, una mostra di fotografie estratte fra quelle di almeno undicimila cadaveri di torturati, fra il 2011 e il 2013, nei luoghi di detenzione siriani, trafugate da un ufficiale della polizia militare (al Maxxi, squadristi di Forza Nuova irruppero inneggiando ad Assad e a Putin, avanguardie di assai più vaste tifoserie).

Il genere umano si compone oggi in buona percentuale di servitori di intelligence, e di congegni capaci di moltiplicarne iperbolicamente l’occhiutezza. E non hanno visto arrivare l’armata provvisoriamente confederata degli straccioni di Idlib. Eppure, il giorno dopo, tutti lo sapevano. Il giorno prima i militari di Assad si erano già tolti i calzoni della divisa, per fare prima. I potenti un po’ non vedono, ostruiti da troppi cannocchiali, un po’ non vogliono vedere, anche quando ne va della loro stessa vita. E c’è un bel confidare che si tratti di esotismi mediorientali: i troni vacillano sotto il culo dei titolari un po’ dovunque, e mai gli altari sono stati così vicini alla polvere. Si perdono teste. A Seoul, hoppa gangnam style, un presidente si fa un colpo di stato di cinque ore: ieri gli hanno comunicato il divieto di espatrio. Mentre Damasco, senza colpo ferire, veniva espugnata, a Parigi si facevano selfie sulla soglia della cattedrale, dove la statua di Saint-Denis tiene in mano la propria testa mozzata. L’adiacente sfilata di statue regali era stata decapitata dai rivoluzionari del 1792. L’Isis rianimò la macelleria, vecchi coltellacci e nuove telecamere (la moschea degli Omayyadi una volta era una chiesa e vantava la custodia della testa decollata di Giovanni Battista).

In Siria era cominciato con gli scolari di Homs, nel 2011. Primavere arabe, subito mutilate dell’estate, e piegate al massacro. Obama tracciò la linea rossa: l’uso delle armi chimiche. Non era tipo da linee rosse, lo fece solo perché lo convinsero che Bashar non era così pazzo da impiegare le armi chimiche e tirarsi addosso la punizione americana. Bashar non era così pazzo, infatti le impiegò, passò la linea rossa, e Obama fischiettò distrattamente, lodato dal Papa. La carneficina divampò, la Russia di Putin si prese il paese, coi mezzadri di Teheran. I turchi ammazzavano i curdi, come sempre. Ieri il governo israeliano aveva già mandato le sue forze speciali a occupare il monte Hermon e una striscia di sicurezza al confine con la Siria, a scopo preventivo, e bombardato i grassi siti di armi chimiche siriani, oltre che i magazzini di missili a lunga gittata, per sventare il rischio che cadessero in mani inaffidabili. Ottima idea, solo che costringe a ripensare che i depositi di armi chimiche erano rimasti, undici anni dopo la linea rossa, di vergogna, del 2013, nelle mani rosse, di sangue, di Assad e dei suoi. In buone mani.

Così va ora il mondo. Mi piace che ci sia qualcuno capace di tenere i nervi saldi. C’è bisogno di rassicurazioni. Il vicepresidente e ministro degli Esteri Tajani ha rassicurato gli italiani – i connazionali sono al sicuro, la Farnesina segue gli avvenimenti, l’incursione all’ambasciata di Damasco, anzi solo nel giardino dell’ambasciata, è avvenuta senza violenze. Quando ha precisato: “Hanno solo portato via tre automobili dell’ambasciata”, ho respirato, come si dice (forse si dice sospirato, non importa) di sollievo. Eravamo rientrati nel domestico, affabile capitolo della crisi dell’automotive.

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