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Andare ancora a pesca del delitto Moro con l'inedita rete di Deaglio

Adriano Sofri

“C’era una volta in Italia. Gli anni Settanta” è un caleidoscopio di racconti e immagini di 784 pagine. Si legge, a piacere, di seguito, o ad apertura di pagina, o per un gioco di notte natalizia, fra nonni che “c’erano” e nipoti che “non ci possono credere”

Enrico Deaglio è arrivato puntuale alla seconda tappa della sua impresa di decennalista, dedicata agli anni 70: “C’era una volta in Italia. Gli anni Settanta”. Con (la preziosa collaborazione di) Ivan Carozzi, Feltrinelli. In un tempo che vive, vivacchia, e langue di presente, ha puntato alla lunga durata. All’età che ho io avrà finito con gli anni 20 e potrà occuparsi del futuro. Sono un po’ in ritardo nel salutare il suo bel tomo, che ha già fatto brillantemente la sua strada negli apprezzamenti di lettrici e lettori. Posso così trascurare il caleidoscopio di racconti e immagini di cui le 784 pagine si compongono e scompongono – si legge, a piacere, di seguito, o ad apertura di pagina, o per un gioco di notte natalizia, fra nonni che “c’erano” e nipoti che “non ci possono credere” – e fermarmi su un paio di capitoli cruciali. Uno, soprattutto, che riguarda Aldo Moro, annunziato già dalla foto di copertina, smemorata, memorabile. Avrei dubitato della possibilità di dirne qualcosa di nuovo, e anche di dirne in modo nuovo qualcosa: sbagliavo. Deaglio non ha condotto un ennesimo supplemento d’indagine: ha messo insieme i pezzi di fonti disponibili e sparpagliate, giornali, memorie, libri, commissioni parlamentari (estenuate), atti giudiziari. Fra questi ultimi, il giacimento enorme e ancora inesplorato del processo per la strage di Bologna, chiuso in appello nello scorso luglio, con la condanna del vivente Paolo Bellini e, quali mandanti, dei defunti Licio Gelli, Umberto Ortolani, Mario Tedeschi e Federico Umberto D’Amato. Non c’è che andare a pesca. Gradoli: era già l’aneddoto increscioso della seduta spiritica in cui l’anima di La Pira indicava ad autorevoli personalità quel nome, dopo di che lo stato correva al paese di Gradoli, nel Viterbese, dimenticando di tornare nella romana via Gradoli, che doveva essergli nota, notissima. Ai numeri 75 e 96 avevano abitato dei militanti neofascisti dei Nar. Al 96 anche alcuni dei più spiccati militanti brigatisti. Nei due edifici aveva acquistato otto (8) appartamenti Vincenzo Parisi, via via capo del Sisde e della polizia. Quando finalmente la polizia va a perquisire anche via Gradoli, trova chiusa la porta dell’appartamento brigatista e rinuncia, perché i vicini dicono che alloggia una coppia tranquilla – sono Moretti e Balzarani. Qualche giorno, e vengono chiamati i pompieri perché di sotto piove dal bagno di sopra: i vigili entrano dalla finestra e trovano la doccia aperta, e sparso su divani e letti un arsenale di mitra, pistole e documenti delle Br.

I servizi, che dai primi anni 70 hanno costruito quella cittadella sulla Cassia, l’hanno affidata a un amministratore, Domenico Catracchia. A distanza di decenni, i magistrati bolognesi convocano Catracchia, che alla fine sarà condannato a quattro anni per reticenza e falso: “Se voi googlate ’Domenico Catracchia interrogatorio’, trovate su YouTube due ore di audio che non vi lasceranno indifferenti, per l’enormità delle cose che vengono dette e per i foschissimi scenari che aprono. … Sembra di vederlo, anche se non ha dato il permesso di essere ripreso. Romano verace, corpulento, sull’orlo degli ottant’anni, con la voce roca (’Dottò, ho cinque bypass e con le cure se so’ bruciate le corde vocali’), ’Scusi, ma io non ho studiato’, è pieno di salamelecchi, ma ogni tanto va in panico, ricorda e non ricorda, a parlare di ‘certe cose’ sembra che tremi (’Dottò, quella è ggente che fa paura, quella è ggente che ammazza la ggente’), si confonde, ammette di conoscere i militanti dei Nar, sì, certo, anche Mario Moretti (’Veniva ogni mese a pagare il riscaldamento…’). Sì, sì, è vero che in quell’appartamento c’era qualcosa di strano e una notte, verso le due, ha visto con i suoi occhi tre persone che spostavano scatoloni, e a uno gli usciva la pistola dalla cintura dei pantaloni (‘Ma non me so’ stupito, perché anche l’amici miei hanno il porto d’armi… ah, sì dottò, me so’ sbagliato, non per le pistole, ma per annà a caccia…’), si vanta di aver affittato a “dottori, ingegneri, camorristi, terroristi, ma pagavano tutti”… E che a Parisi ha venduto tutti quegli appartamenti, e che erano amici, anche della signora, non sapeva che era del Sisde. E così via.

L’altro capitolo rimontato fino a ricavarne un emozionante romanzo a tristo fine è quello del leggendario colonnello Giovannone, cui dalla miserabile “prigione del popolo” il presidente democristiano (autore con lui del “Lodo Moro”, che intendeva mettere l’Italia al riparo dal terrorismo arabo) raccomandava di rivolgersi. E Giovannone tessé una trama che coinvolgeva i capi di stato mediorientali, i capi delle bande palestinesi, il maresciallo Tito e i militanti tedeschi della Raf arrestati in Jugoslavia, ed era arrivato alla vigilia dello scambio fra i prigionieri tedeschi, a Beirut, e la consegna di Moro a un’ambasciata romana, quando arrivò la notizia sul corpo lasciato in via Caetani.

Citerò ancora un’appendice romanzesca, e grottesca, del rapimento di Moro. Moro prigioniero aveva scritto di Sindona e Andreotti. E l’avvocaticchio siciliano Michele Sindona, mutato da una carriera vertiginosa nel fiduciario dei grandi affari finanziari della mafia e delle banche e della Dc andreottiana, al momento della bancarotta e della rappresaglia omicida che gli incombe addosso, inscena un proprio rapimento a New York a nome di un “Comitato proletario eversivo per una giustizia migliore”! I due mesi di pseudo-rapimento li passa in Sicilia, si fa sparare un colpo di pistola a una gamba (con un  cuscino per attutire), scrive anche lui “lettere dalla prigionia”, si fa fotografare da una Polaroid nella posa di imputato del processo proletario, fa assassinare l’avvocato Ambrosoli. Nessuno si era accorto ancora di questo tragicomico remake. Poi Sindona, recluso, lui, in un carcere statale e condannato all’ergastolo, muore nel 1986 bevendo un caffè al cianuro. “Suicidio”.

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