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Le parole di un Papa con cui simpatizzo perché dice tutto e il contrario di tutto

Adriano Sofri

La “crudeltà”, la “basilica di Rebibbia”, i pesci piccoli, e “perché loro e non io…”. Discorsi di un tempo in cui il verbo pontificare ha perduto il suo rapporto con la liturgia

Da quando, grazie ai tempi e a uno venuto da Buenos Aires, il papato è diventato così affabile, ciascuno è indotto e autorizzato a simpatizzare, antipatizzare, sbuffare o intenerirsi a gesti e parole di Francesco. Il verbo pontificare del resto aveva perduto presto il suo rapporto con la liturgia e il sacro per designare un’ironica o indignata o scherzosa impazienza nei confronti di discorsi saccenti o prepotenti. Francesco pontifica su tutto, parole e gesti simbolici sono la sua risorsa, dal momento che è disarmato. La parata di guardie svizzere, buffa, bella, sul sagrato di San Pietro all’apertura della Porta Santa, serviva a ricordarlo. Francesco ha trovato parole convincenti in questi giorni solenni. Aveva detto dell’opportunità di indagare sull’eventualità che a Gaza si compisse un genocidio, e la frase era sembrata un esercizio di equilibrismo, una smentita del Sì sì No no – formula che ha anche lei le sue benedette eccezioni, salvo ridurla al cretino Senza se e senza ma. Ora ha scelto di dire, e ripetere, “crudeltà”: a Gaza “non è guerra, è crudeltà”, “quanta crudeltà”, “tanta crudeltà”… La crudeltà esce dalle fattispecie giuridiche, i crimini contro l’umanità, il genocidio, e d’un tratto le surclassa. E’ chiara. Un corteo contro la crudeltà farebbe più male di una battaglia perduta o di un mandato d’arresto.

Poi ha detto dell’audacia della pace: parola forte, diventata un po’ retorica. Ci vuole più coraggio a fare la pace che a fare la guerra. Giusto, ma quando ti fanno guerra e ti arrivano in casa e te la saccheggiano, la casa, “il coraggio della bandiera bianca” è un brutto qui pro quo. Una volta, ormai parecchio tempo fa, Francesco disse ai giovani ucraini, me lo segnai: “Penso poi a voi, giovani, che per difendere coraggiosamente la patria avete dovuto mettere mano alle armi anziché ai sogni che avevate coltivato per il futuro”. Hanno dovuto. Siamo sempre al punto: amate il vostro nemico – precetto arduo, che ammonisce anche che il nemico esiste.

Il Papa infatti, questo Papa, dice tutto e il contrario di tutto, per così dire. Perciò simpatizzo spesso con lui. Ieri, per esempio, all’Angelus, ha detto con un estremo vigore che Dio “perdona tutto, perdona a tutti”. Poi è andato ad aprire “la basilica di Rebibbia”, ci è entrato tirandosi su in piedi, ha esortato a spalancare porte e braccia e cuori, il senso del Giubileo, e all’uscita, dal finestrino aperto della sua utilitaria, ha detto che in galera ci sono i pesci piccoli, soprattutto i pesci piccoli, e che i pesci grossi hanno l’astuzia di rimanerne fuori, che è una bella idea a Buenos Aires e nel resto del mondo, e avrà fatto bestemmiare qualche grosso peccatore dentro e fuori. Ha detto: “Dobbiamo accompagnare i detenuti e Gesù dice che il giorno del giudizio saremo giudicati su questo: ero in carcere e mi hai visitato”. Bell’avvertimento. Ci si vergogna a confrontarlo con l’esempio di un sottosegretario delegato alle carceri che va a visitare una galera e si vanta di aver incontrato i carcerieri e non aver incontrato i carcerati. Del resto anche il nome “sottosegretario”, a volte, in certi suoi contesti, prende un suo persuasivo significato, sopra, sotto: sovraffollato, sottosegretario. Dio perdona tutto e tutti, ma dev’essere molto difficile che certi sottosegretari passino dalla cruna dell’ago.

“Ogni volta che vengo in carcere la prima domanda che mi faccio è perché loro e non io…”, ha detto Francesco. L’ha detto molte volte. Ma ha avvertito: “Non è un modo di dire”. Non ha detto che bisogna essere duri senza perdere la propria tenerezza, in porteño “Hay que endurecerse sin perder jamás la ternura” – ma quasi.

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