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Cecilia Sala e quelle donne vittime del maschilissimo “se l'è cercata”

Adriano Sofri

Un accanimento che ha a che fare per antonomasia col sesso. Uno che va a Napoli col Rolex al polso si dice che se l’è cercata, ma suona ingenuo, innocente. Di una che esce con una minigonna invece si dice, e suona colpevole

Non è vero che non ci si stupisce più di niente. Ci si stupisce. Mi stupisco dell’infamia che trovo larga e compiaciuta nelle parole su Cecilia Sala. Non sto scrivendo di lei, e violando la consegna del riserbo: sto parlando di loro, i commentatori. E precisamente della ripetizione, al suo riguardo, della più miserabile e più esemplare frase coniata per violentare le donne, o per applaudire chi le violenta. “Se l’è cercata”. “Se l’è andata a cercare”.

Può impiegarsi anche da uomini per uomini. Di Giorgio Ambrosoli, assassinato da un sicario prezzolato di Michele Sindona, Giulio Andreotti disse in televisione: “Certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando”. Poi, come si usa, si scusò. Ma con le donne è un’altra cosa.

Non so quanto sia abituale in altre lingue un’espressione come: Se l’è cercata. She brought it on herself… She asked for it… Elle l’a demandé… E’ diventata proverbiale, a parti invertite, l’esclamazione del “Marito confuso” di Molière - Vous l’avez voulu, George Dandin, vous l’avez voulu – è lui, il cornuto destinato a non essere mai creduto: te la sei cercata, George Dandin. “Se l’è cercata”: quante nefandezze ha mascherato questa frasetta. Le sue perifrasi non hanno avuto altrettanta fortuna – chi è causa del suo mal… Certo, alle donne si imputa di essere causa del proprio mal, ma l’espressione non rende abbastanza l’idea, il loro darsi da fare a procurarselo, il loro “andarselo a cercare”. Questo accanimento ha a che fare per antonomasia col sesso. In altri campi la frase è impiegata, è sbagliato obiettare che di chi è rapinato non si dice che se l’è cercata. Uno che va a Napoli col Rolex al polso si dice che se l’è cercata, ma suona ingenuo, innocente: più che cercarsela, se l’è trovata. Di una che esce con una minigonna invece si dice, e suona colpevole. Suona colpevole, e dunque come un’attenuante per il violentatore, se non un’esimente – perlomeno un concorso di colpa: lui l’ha stuprata, o loro l’hanno stuprata, ma lei se l’è cercata. Loro l’hanno incarcerata, me lei ci era andata. Andare in Iran, una donna giovane e straniera, è come uscire in una minigonna troppo provocante. Succede per una categoria infinita come le donne, e per alcune persone singole. Per esempio per l’assassinio di Pasolini, che non era donna ma frocio sì, e dalle voraci battute notturne, sicché di un uomo vitale e capace di esser felice si è fatto uno che è andato a procurarsi il proprio cristico sacrificio. Il Pasolini che “se l’è cercata”, almeno altrettanto abusivo del Pasolini vittima di una cospirazione di poteri segreti.

Della storia del “se l’è cercata” fa parte il proposito, così trasparente da essere diventato invisibile e pressoché naturale, di congiungere la colpevolizzazione della donna – della bambina, della ragazza – con la sua autocolpevolizzazione. Che bambina, ragazza, donna, abbiano provato insieme all’umiliazione, al disgusto, all’offesa, la sensazione di un cedimento, di una collusione del proprio corpo, diventa per effetto del contesto una ragione di vergogna e di autoaccusa – di complicità, di correità. Non so capirne né parlarne plausibilmente, uomo come sono, ma so riconoscere i congegni che gli uomini hanno elaborato per contribuire a questa chiamata in correità. Le indagini gonfie di domande: Ha provato piacere mentre…? Le arringhe dei difensori: Però lei ci stava… La letteratura, che quando è meno volgare non fa simili domande, ma dà le risposte. Il cinema, per non dire della pornografia, in cui un intero genere si fonda sul passaggio della donna oggetto di stupro che resiste fino al punto in cui cede e urla e pianto diventano un gemito arreso. Fra le innumerevoli barriere che la cultura ha opposto alla decisione delle donne di denunciare la violenza questa non è fra le minori. E non è certamente fra le minori cause della educazione dei maschi alla violenza: ai maschi si insegna, dalle vanterie dei più grandi, dalla letteratura, dal cinema, dai porno, che le ragazze, le donne, dicono di no ma vuol dire sì, e magari fisicamente resistono e si oppongono, ma poi “gli piace”. Che questo è il gioco delle parti, che qui si gioca la loro virilità.

Se la cercano. Ogni ora che passa serve a indurre la sequestrata a dirsi che ha sbagliato. Che non si fa. Non si va in Iran. Che cosa passi per la mente e il resto del corpo dei carcerieri di Evin lo spiegano i voluttuosi commentatori di Facebook. E viceversa.

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