piccola posta
Da Kyiv a Odessa, è nero il cielo sopra l'Ucraina e il suo presidente
La guerra fra sondaggi e cannoni. Domenica Volodymyr Zelensky aveva insistito soprattutto sulle falle nelle sanzioni
In una guerra che si immagina regolare, con due eserciti che si fronteggiano, il ricorso di una parte a espedienti affini alla guerra di guerriglia, soprattutto l’audacia, la sorpresa, l’astuzia, è insieme un’ammissione di debolezza e una rivendicazione di fierezza. Così è per l’offensiva ucraina nel Kursk, indubbiamente audace, e sorprendente solo per aver contato ancora sull’ottusità burocratica dell’esercito russo, incapace di pensare al raddoppio della sorpresa di agosto. Che abbia rosicchiato qualche chilometro o sia stata fermata, come pretendono le fonti russe, cambia poco: cercava un risultato simbolico, per il morale delle truppe, per quello dei civili ucraini, e per il resto del mondo e i suoi notabili. Vi si svolgono comunque combattimenti accaniti e sanguinosi, e costano carissimi anche alle truppe nordcoreane. La Russia ha appena mandato al comando nel Kursk un suo “sperimentato” generale, Yunus-Bek Yevkurov.
Sul fronte del Donbas, quello della guerra regolare, dunque dell’urto di una massa di artiglierie, veicoli e uomini mandati avanti senza risparmio, cannoni da carne e carne da cannoni, c’è solo la consegna di resistere e ritardare lo sfondamento almeno fino al giorno in cui la responsabilità cadrà addosso al satrapo americano. Ieri i giornali ucraini informavano dell’ultimo sondaggio ufficiale, col consenso a Zelensky sceso al 52 per cento, 7 punti in meno che a ottobre. Domenica Zelensky, in un colloquio di tre ore con un podcaster americano, aveva insistito soprattutto sulle falle nelle sanzioni, documentate dalla percentuale di dispositivi di fabbricazione occidentale nei congegni impiegati dai russi in Ucraina.
Lunedì il comandante ucraino delle forze di terra aveva parlato delle difficoltà della Brigata meccanizzata “Anna di Kyiv”, schierata sul fronte di Pokrovsk. Attrezzata e addestrata in Francia, con una forza prevista di 5.800 uomini, di cui meno di 2 mila avevano effettivamente svolto la propria preparazione in Francia, avrebbe registrato la diserzione – l’“assenza non autorizzata” – di 1.700 militari, prima di aver sparato un solo colpo. “Molte decine” di soldati avrebbero disertato già nel corso del periodo di addestramento in Francia. Il generale ha attribuito le diserzioni alla “paura” e alla mancanza di esperienza di combattimento, e ha riconosciuto che ci sono cause reali, nel reclutamento, nell’addestramento “e in parte anche nelle funzioni di comando”. Si capisce che le diserzioni sul fronte moltiplichino l’evasione o le resistenze alla mobilitazione nelle retrovie, e gli episodi di violenza dei reclutatori e di ribellione dei reclutandi e dei concittadini. Ho l’impressione sempre più sconcertante che questa condizione interna, da tempo evidente e del tutto prevedibile a distanza di quasi tre anni, venga deliberatamente o, peggio, stupidamente ignorata nei pensieri e nelle dichiarazioni degli alleati politici dell’Ucraina, in Europa e fuori.
A Odessa, c’è stato un notevole cambiamento nella incresciosa questione della “ridenominazione” delle strade. Il governatore militare, Oleh Kiper, che un mese fa era stato ospite del sindaco di Venezia, ha dichiarato di aver agito, con la decisione sulla cancellazione di oltre cento toponimi storici sostituiti da nomi largamente improvvisati e a volte azzardati, in osservanza a una legge che nel frattempo non è più in vigore. “Se ho commesso un errore in qualche parte, sono pronto ad ammetterlo, ma a quel tempo la mia posizione era chiaramente definita dalla legge e dovevo agire in conformità con essa”. Mutata la legislazione, ha aggiunto, le comunità locali possono “prendere autonomamente decisioni sulla ridenominazione”. Sembrerebbe del tutto ragionevole che nella condizione attuale, in cui Odessa – come tante altre città ucraine – è priva di almeno metà della sua gente, mobilitata o espatriata, ogni decisione sulla memoria della città venisse rinviata all’indomani della fine della guerra. Ragionevole quanto l’impossibilità di tenere le elezioni presidenziali, che Putin prende a pretesto per proclamare, dal suo pulpito plebiscitario, l’“illegittimità” di Zelensky, e trarne il corollario che con lui non sarà mai possibile negoziare.