piccola posta

Gli Stati Uniti di questo occidente ne fanno solo un vecchio ricordo

Adriano Sofri

Ci si consola avvertendo che l’occidente non esiste che nel suo tramonto. Non si può più dire. Intanto il Brasile annuncia l’ingresso a pieno titolo dell’Indonesia, “la più vasta economia del sud-est asiatico”, nei Brics

Il governo brasiliano, che dal 1° gennaio presiede il raggruppamento detto Brics, ha annunciato l’ingresso a pieno titolo dell’Indonesia, “la più vasta economia del sud-est asiatico”. L’Indonesia, 284 milioni di abitanti, è al quarto posto nel mondo per popolazione (dopo India, Cina e Stati Uniti) e al primo posto per la popolazione musulmana, quasi interamente sunnita. Il documento ufficiale brasiliano dice che “l’Indonesia condivide con gli altri membri a pieno titolo (che sono Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran) l’impegno per la riforma delle istituzioni di governance globale e contribuisce positivamente all’approfondimento della cooperazione del Sud Globale, temi prioritari per la presidenza brasiliana dei Brics”. Benché Giacarta non possa fare a meno di tenere il piede in due scarpe, il suo ingresso è un passo di gran rilievo. Altri otto stati, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Kazakistan, Malesia, Thailandia, Uganda e Uzbekistan, sono partner dei Brics, e Algeria, Nigeria, Vietnam e Turchia stanno un passo indietro. E l’Arabia Saudita ci pensa su.
Ho un amico fraterno, di una solidarietà temprata in tempi di ferro come il golpe cileno e le repressioni argentine e uruguayane, e sigillata dai lutti. Mi inoltra un breve scritto di apologia dei Brics, per la loro rottura con la pretesa arrogante di un mondo unipolare e della fine della storia, e la fiducia in un nuovo bipolarismo. (Almeno, i “non-allineati” si proponevano come una terza via). C’è scritto: “Soprattutto perché unisce, per la prima volta, la potenza militare della Russia con la potenza economica della Cina. Fu possibile vedere, per la prima volta, truppe cinesi sfilare nella Piazza Rossa”. Un sogno, per lui, un incubo, per me. Arriva Cuba, dice, nei Brics. Facemmo arrivare a Fidel Castro, il mio amico e io, il denaro raccolto per i resistenti cileni. Più di mezzo secolo. Guardo con gran pena il buio di Cuba. Guardo del resto la cialtroneria di Milei e il momento in cui l’Argentina travolta lo travolgerà.

Il mio amico, che è molto legato al presidente brasiliano Lula, mi esorta a considerare la differenza fra i luoghi in cui viviamo. Non si fa illusioni sulla libertà della Russia o della Cina, ma “gli Stati Uniti sono il nostro nemico principale”, dice. Io, lungi dal non farmi illusioni, considero quei paesi, e i loro affini – l’Iran, la Turchia, e ora impudentemente la Corea del nord – le sentine della terra. Ho visto coi miei occhi l’oppressione di tanti luoghi, e del resto oggi nessuno può accampare la distanza a giustificazione della propria indifferenza. Si vedono da vicino le donne impiccate a Evin e a Nishapur, anche quando i carnefici non ne fanno una pubblica esibizione.
Quanto al “nemico principale”, e al suo corollario lessicale – il nemico del mio nemico è mio amico… – appartengono a una fraseologia frusta. Così come vedo una differenza forte fra Bolsonaro e Lula, ne vedo una altrettanto forte fra Biden e Trump. Al momento della rielezione di un Lula reduce dalla galera, Biden non tramò per farlo cadere manu militari né ordinò un blocco economico – altri tempi: mandò le sue congratulazioni. Non dimentico che gli Stati Uniti, a differenza dall’Europa, hanno ancora la pena di morte. Che hanno e coltivano una endemica vocazione venatoria, della caccia all’uomo. Che hanno Guantanamo. Che intraprendono a volte progetti micidiali per raddrizzare le zampe ai cani del pianeta, e altre volte abbandonano i loro protetti in balia delle vendette. Sono anche un paese grande per la scienza, l’arte, la cultura. Sono un paese attraversato da lotte coraggiose e lucide contro ogni genere di discriminazione, contro ogni discriminazione di genere – e di classe, e di etnia.

Mentre scrivevo queste frasi, una ricapitolazione di ragionevoli ovvietà, ho sentito che suonavano fasulle, stridevano. E mi sono fermato, un momento prima di riscrivere la parola d’ordinanza: Occidente. Non me la sento più. L’occidente, che lo si scrivesse maiuscolo o no, aveva dentro gli Stati Uniti, decisivamente. Mercoledì notte Radio Radicale ritrasmetteva la terza edizione del Festival della Cultura Americana, promosso dal Centro Studi Americani e dall’università di Tor Vergata, intitolato alle Frontiere. Un programma notevole, soprattutto di studiose donne, dedicato a personaggi e figure della felicità e della fatica di “andare oltre”: Alberto Tarchiani, scrittore, azionista, ambasciatore; Maria Mazziotti Gillan, poetessa, strenuamente dedita mezza vita a far dimenticare lingua e genitori italiani e l’altra metà a rivendicarli; la New York russa, tal quale Pietroburgo, tra migranti decisi a scrivere solo in russo e altri solo in inglese; bell hooks e la pedagogia della trasgressione, di genere di classe di colore; Vittorini e la riscoperta dell’America; la Chicago italiana di madre Cabrini; le discriminazioni nelle leggi; la mania del complotto; la promessa della felicità; i gesuiti in Alaska; il blues nelle black churches; i giochi di mano di cordofoni africani e chitarristi americani. Ascoltavo con piacere e con frutto, e però qualcosa non tornava, perché si erano tenute da pochi giorni le elezioni alla Casa Bianca e aveva vinto Trump, e quel sontuoso programma “beyond” era stato pensato, si direbbe, per scongiurarlo.

L’altro giorno guardavo Kamala Harris diligentemente proclamare in Senato l’elezione di Trump alla presidenza. Provavo a dirmi che assistevo a una prova sacrificale di rispetto per la democrazia. Ma no. Avevo un rimpianto di Aventino. Sentivo un sapore di riti staliniani, di omaggio al vincitore per bocca dello sconfitto, in nome della fedeltà a un ideale. Ieri, ai funerali di Jimmy Carter, una specie di coetaneo morale di Abramo Lincoln, Trump si è guardato dal dare la mano a Harris. La presidenza degli Stati Uniti all’uomo che cercò di tenersela con un’invasione armata ed esaltata del Campidoglio, e oggi annuncia rappresaglie contro i suoi giudici. E i miliardari. Ieri la presidente Meloni ha contrapposto il trasparente Elon Musk al losco George Soros. Fui sinceramente ammirato dalla lucidità spiritosa di Warren Buffett: “La lotta di classe esiste, e l’abbiamo vinta noi” (disse meglio, era il 2006: “There’s class warfare, all right, but it’s my class, the rich class, that’s making war, and we’re winning”. C’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo). Ma era ancora preistoria. C’è una lotta fra un ricco, Soros, e il più ricco, Musk, e l’ha vinta Musk. Una guerra fra miliardari, e l’hanno vinta i miliardari degli altri.

A meno che sia proprio questo, l’occidente non c’è più. Ci si consola avvertendo che l’Occidente non esiste che nel suo tramonto. Non si può più dire. E la lagna sull’Europa che sarà finalmente costretta a fare da sé, fedele al suo retaggio venereo, ai lumi, a Beccaria, dovrà cedere al riconoscimento della china reazionaria che ha preso. E i partiti che più francamente riproducono gesti e mentalità fasciste rivaleggiano con quelli che mescolano torbidamente demagogia e malvagità, fingendosi di volta in volta inveratori della sinistra o araldi della fine della differenza fra destra e sinistra. L’occidente è sempre meno affare della vita pubblica, è un attaccamento a un vecchio ricordo, una scoperta di aver perduto per distrazione il senso della vita, un rifugio privato. Le fortezze, le città dalle mura inespugnabili, cadono dall’interno. L’alternativa si farà più secca: barbarie o barbarie. Ancora una ragazza toglierà il turbante dalla testa di un ributtante mullah e se ne farà una sciarpa. Chissà dov’è ora.