piccola posta
Il "Santo bevitore" di Roth a Milano, una serata felice a teatro
Carlo Cecchi ha recitato, per la regia di Andrée Ruth Shammah, e con Claudia Grassi e Giovanni Lucini, l’ultima replica della "Leggenda del santo bevitore", che sta portando in scena da tre anni. Una condanna mutata in miracolo, un Sisifo alla rovescia
Domenica al Parenti di Milano Carlo Cecchi ha recitato, per la regia di Andrée Ruth Shammah, e con Claudia Grassi e Giovanni Lucini, l’ultima replica della Leggenda del santo bevitore, che sta portando in scena da tre anni, e ancora si ritrasferirà a Napoli, a Firenze, a Roma. Sono stato felice spettatore. Joseph Roth (1894-1939), ebreo della galiziana Brody, oggi Ucraina, che era stato tradotto tempestivamente in Italia negli anni ‘30, fece presa all’inizio dei ‘70 specialmente sulla generazione in cui la ribellione ripiegava quasi a malincuore verso la nostalgia. Roberto Calasso osservò divertito che quel successo travolgente si doveva, oltre che al “Lontano da dove” di Magris, a Lotta continua...
Quanto e più del suo amico Stefan Zweig, Roth aveva rimpianto il mondo di ieri, mutilato come una stazione ferroviaria di frontiera dai binari morti. Mi impressiona oggi che la nostra distanza dalla scrittura della Leggenda e dalla morte di Roth, 1939, conti 86 anni, mentre ne contava nemmeno trenta dal ‘68, e il nostro Alexander Langer, che al confine fra i due mondi e le due epoche era nato e ne aveva fatto una cerniera, la sua Brücke, si trovò a essere collega e amico nel parlamento europeo di quell’Otto d’Asburgo che era stato l’ultimo eroe di Roth, e che gli sopravvisse di sedici anni - e riposa nella Cripta dei Cappuccini.
La replica cui ho assistito è stata molto felice, coincideva con il compleanno di Cecchi, e con un’ammirazione specialmente affettuosa del pubblico - c’è sempre il pieno. Voglio annotare soprattutto due cose. Gli applausi, tanti e commossi, che sembravano abbracciare insieme Carlo Cecchi vivo e forte e il bevitore Andreas Kartak appena morto sul bancone del bar, come tutte le sere. E dopo, finiti i tanti applausi, e Cecchi non si ripresentava, e riaccese le luci, il pubblico è rimasto per un po’ fermo e in silenzio, prima di decidersi ad alzarsi e uscire di scena, riluttante, anche lui.
Il bevitore è la condanna mutata in miracolo, un Sisifo alla rovescia. Che invece di dolersi perché ogni volta, a un passo dalla cima, è di nuovo ributtato giù dal masso che gli rotola addosso, ogni volta, dal fondo, si rallegra di ricominciare a rotolare il masso verso la luce, in alto. Dove lo aspetta la piccola santa. Di lì a poco Camus avrebbe raccontato il suo Sisifo felice di resistere all’insensatezza. La pena di Sisifo è eterna - un ergastolo da immortali. Il bevitore sta invece prendendo congedo dalla sua intera vita, e dal mondo che finisce con lui. La sua dilazione ripetuta non è pesante come un macigno, ma leggera come gli amici e i compagni ritrovati, l’amore antico e spento e quello nuovo e imbroglione. Nell’affabile leggenda, fra una canzoncina di varietà parigino e l’eco di un kaddish, si rivede il Roth invecchiato a quarant’anni che beve, il Pernod messo in commercio appena un anno prima che già diventa letterario, spodestando l’assenzio. Non puoi dire a un bevitore: “Così ti ammazzi”. “Così bevo”. Lui, Roth, i baffi chiari e il viso arrotondato e un po’ frastornato, finisce di scrivere e di bere e muore, e il racconto resta lì, come un debito saldato.
Un effetto, non il minore, della recita, è la voglia di uscire dal teatro e dare al primo barbone che si incontra, per giunta in una sera di pioggia, una cifra che lo stupisca - non enorme, tanto non ce l’ho, ma nemmeno ordinaria: tipo centocinquanta euro - per l’eventualità che sia stato un minatore, che abbia un’anima poetica, e sia fiero della sua dignità di uomo leale. Che sia Carlo Cecchi in abito da scena, come capita, in persona.