piccola posta
Solo chi lo ha visto da vicino può capire cosa significa fare i conti con il dottor Ligotti (sì, si chiamava così)
Non solo Cutro e non solo Almasri. Ebbe il coraggio di dire che Rostagno fu assassinato dalla mafia di Lotta continua. Un ritratto di un nemico, non di un avversario
Si conosce bene il proprio nemico. Luigi Ligotti – si chiamava così, tutto attaccato, prima del lifting onomastico – è stato mio nemico, non avversario, nelle aule di tribunale e fuori. Così oggi, di fronte al nuovo chiassoso passo della sua carriera, quando l’ho sentito definire da Meloni “molto vicino a Prodi”, e definirsi lui già del MSI, ma “di sinistra”, e ora orientato “al PD”, ho potuto riderne di cuore.
Ecco i rudimenti di un uomo in carriera. Della trentina d’anni trascorsi come neofascista e responsabile del MSI nella sua provincia calabrese hanno detto i giornali. Da avvocato, la prima occasione importante gliela diede Odoardo Ascari associandolo al patrocinio di alcune famiglie delle vittime di Piazza Fontana. Ascari (1922-2011), modenese, è stato difensore o patrono di parte civile in molti dei processi politici più importanti del dopoguerra, fino a quello palermitano (e perugino) in difesa di Giulio Andreotti. “Considerato il difensore storico dell’Arma dei carabinieri”, come recitava il necrologio nella sua città, fu il promotore del famigerato trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana alla Corte d’Assise di Catanzaro. E là, nel 1975, col giovane Ligotti, sostenne la colpevolezza degli anarchici. Carlo Arnoldi, il cui padre era morto nella strage, poi presidente dell’Associazione delle famiglie delle vittime, ha ricordato: “Io ero da quel giorno insieme a mia mamma e alle tante mamme che cominciarono a trovarsi insieme per farsi coraggio, per cercare di capire tra di noi cosa poteva essere successo, naturalmente la maggior parte delle nostre mamme erano convinte che fossero gli anarchici, anche l’avvocato che c’era stato assegnato, l’avvocato Odoardo Ascari, lui era convinto che fossero gli anarchici e che il processo nel giro di pochi anni avrebbe dato ragione, che saremmo arrivati alla verità”.
Con quella premessa Ascari rappresentò, insieme a Ligotti, la parte civile per la famiglia Calabresi nel processo contro i miei compagni e me. Durante il lungo corso di quel processo Ligotti diventò l’avvocato d’elezione di parecchi dei più sontuosi “pentiti” di mafia. Forte di questa competenza, e in particolare del patrocinio di Giovanni Brusca, nel novembre 1993, durante uno dei processi d’appello per l’omicidio Calabresi, dichiarò in aula, in mia assenza, che Mauro Rostagno era stato assassinato dalla mafia di Lotta Continua. “Anche Mauro Rostagno non è morto per lupara. Non è morto per lupara: è stato fatto tacere! Sicuramente. Ma alla vigilia di un interrogatorio per questi fatti, convocato dal Giudice... Non è morto per lupara. Questa è una storia macabra, ancora da scrivere! Ma questi erano gli uomini: loro mafiosi, perché il loro linguaggio è mafioso /.../ Io dico che la causa della morte di Rostagno – è una mia supposizione – è nei fatti di questo processo, non nella comunicazione giudiziaria: perché non è morto per lupara”. Intervenne il mio difensore, Marcello Gentili: “Signor Presidente, metto a verbale che abbandono l’aula dell’udienza: il difensore di Sofri abbandona l’udienza perché l’accusa di assassinio a una presunta mafia di Lotta Continua e quindi, indirettamente, allo stesso Adriano Sofri, l’accusa di assassinio di Mauro Rostagno eccede i limiti della difesa di Parte Civile e rende insopportabile ascoltare, criticare una discussione in questi termini…”. Presidente: “Avvocato Gentili, l’avvocato Ligotti ha fatto un’affermazione e ovviamente se ne assume la sua… se ne assume la responsabilità”.
Tre anni dopo, Ligotti ci riprovò: questa volta ad assassinare Mauro era stata Chicca, la sua compagna e madre di sua figlia Maddalena: “Le due piste, quella della faida interna a Saman e quella che porta al processo Calabresi, non si escludono a vicenda. Dietro la morte di Rostagno c’è qualcosa di grosso. E la mafia non c’entra niente… Perché insistere sulla mafia? Secondo me continua il depistaggio”.
Le sue sortite gli guadagnarono un clamore comparabile a quello che si è appena procacciato con l’esposto sul caso Almasri. Ignobile com’era, la calunnia sarebbe stata sconfessata perfino dal suo cliente Giovanni Brusca, la cui testimonianza fu tra quelle che si conclusero con la condanna della mafia, la vera, per l’assassinio di Rostagno. Intanto il curriculum di Li Gotti, così rinnovato, sospinse il suo passaggio dall’estrema destra alla destra in maschera di Di Pietro e della sua Italia dei Valori, grazie alla quale entrò da sottosegretario nel governo Prodi: ciò che ha suggerito a Giorgia Meloni l’imprudente definizione.
Di recente, Ligotti si è cimentato nella imprevista difesa di famigliari delle vittime del naufragio di Cutro. Fino all’esposto che gli ha riofferto la scena. Ispirato dall’ambizione personale, o da qualche intento collettivo – ha associato alla denuncia il sottosegretario Alfredo Mantovano, responsabile della sicurezza della repubblica, quale garagista dei Falcon di Stato – nella beata ridda di interviste e biografie Li Gotti ha trovato il modo di annunciare di essere stato “della corrente di sinistra del MSI”, di essere stato iscritto “automaticamente” dagli amici ad AN fino al 1998, di aver cominciato a difendere mafiosi pentiti su richiesta di Giovanni Falcone, di non aver mai incontrato Prodi ma di sentirsi oggi vicino al Pd. Ha bussato.
Poche cose sono paradossali come la pretesa che Almasri sia stato scarcerato e accompagnato in Libia da un Falcon della Presidenza del Consiglio “perché è pericoloso”. Schlein e colleghe e colleghi hanno premesso ai loro commenti che la questione giudiziaria non è affar loro, al contrario della questione politica. Mi auguro che se ne ricordino strettamente, dell’una e dell’altra cosa.