Unsplash

piccola posta

Sì, anche i disabili (e i detenuti) fanno sesso. Un libro per scacciare le paure

Adriano Sofri

Iacopo Melio e le sue 100 risposte sull’affettività. Scoprirsi ignorante di parecchie cose e maldestro di tante, magari per la causa peggiore dopo la cattiveria: le “buone intenzioni”

Sono successe due cose nei giorni scorsi. La prima a opera di Trump. Trump ha uno svantaggio doppio: è un grosso bellimbusto fisico e mentale. Lo fa pesare. Ha imputato il disastro aereo di Washington all’impiego, nel controllo di volo, di persone con disabilità. Lisa Noja ha risposto qui all’“ignobile pensiero, che inaugura una violentissima colpevolizzazione”. Pochi giorni dopo, Trump è passato dalle persone con disabilità all’elicottero militare, ma il danno era fatto. Alla seconda cosa ho dedicato la “Piccola Posta” di ieri: l’annosa vergognosa questione della cosiddetta affettività in carcere, cioè del diritto dei detenuti (e delle detenute, esigua minoranza della popolazione carceraria, il 4 per cento!) a fare l’amore quando non vi si oppongano speciali ragioni di sicurezza.

E intanto mi è arrivato il nuovo libro, il settimo, di Iacopo Melio, “Ma i disabili fanno sesso? 100 risposte semplici a 100 domande difficili” (il Margine, Trento, pp. 233, 17,50 euro). Melio (1992) è Cavaliere al merito, consigliere regionale in Toscana, scrittore e giornalista. Quanto pesa, lo dice in uno spiritoso preambolo. Forse pensate che non vi riguardi, forse lo penso anch’io. I disabili fanno sesso? Certo, perché no! Leggevo, piacevolmente, perché le cento domande e risposte sono chiare, concise, efficaci. E via via mi grattavo la testa, scoprendomi ignorante di parecchie cose e maldestro di tante, magari per la causa peggiore dopo la cattiveria, le “buone intenzioni”. C’era un’esca già nel titolo, perché a “disabile” conviene sostituire “persona con disabilità”, per non ridurre la persona alla disabilità. La quale non è una malattia: “Non si prende, non si trasmette, e non si guarisce”. La Legge 104, ci sono famiglie per le quali è la più nota (10 milioni di persone), altre che non ne hanno idea (qualche stronzo ha imparato cos’è per usarla come un insulto, variando il “mongoloide” o il “cerebroleso”). Delle e dei “normodotati” – io, per esempio – sappiamo, anche se ci diciamo ancora, ad alta voce, o sotto sotto, “normali”. Dell’avverbio “diversamente” facciamo un abuso fesso e divertito: diversamente abili siamo tutti e ciascuno/a. Dell’importazione di “siblings” sapevate? E che cosa sono i Peba? E il Pei? E vi capita, specialmente se siete giornalisti di cronaca, di dire: “Costretto in carrozzina”? Carrozzina va bene, eh, è costretto che tradisce la cosa: la carrozzina fa sentire la persona viva e libera. Uguaglianza, per esempio, è una bella idea ma la meno praticata del mondo, e va meno bene che parità: dare gli strumenti per poter essere alla pari delle altre persone. “Normalizzare la disabilità”: “Per tutte e tutti c’è sempre un momento o una situazione in cui non si sa fare qualcosa mentre si sa fare altro sicché la disabilità è una possibile condizione universale”. Torno un momento all’inizio: ho paragonato di fatto le persone detenute alle persone con disabilità? Non è un pensiero offensivo? Be’, no. Non solo perché purtroppo la galera è piena di persone con disabilità. Ma perché l’inabilità è una condizione universale. Quella dei detenuti, compresa la più rivelatrice del gusto di punizione corporale, ormai inveterato fino alla distrazione, il divieto a una vita di relazione sessuale, è una disabilità temporanea – salvo che per gli ergastolani senza scampo, per chi in cella muore, per chi si uccide. Ma la disabilità temporanea è un’esperienza così comune per tutte e tutti, un incidente, una malattia, e se non altro la vecchiaia, che è incredibile che la coscienza ne sia rimossa. I bambini – un’altra categoria con disabilità innumerevoli e pedagogicamente coltivate – spesso lo sanno. Quando chiudono gli occhi e provano a camminare senza urtare perché hanno fatto amicizia con un coetaneo cieco. O quando si allenano a camminare con una gamba sola e le stampelle del compagno fratturato e invidiato. Non sarò così stupido da dimenticare la differenza fra una difficoltà temporanea e una permanente, ma il paragone serve a mostrare le somiglianze, e le simpatie. L’infantilizzazione, per esempio: la si riserva pressoché allo stesso modo alle persone con disabilità – Iacopo: “Oh, piccino, ti si è sciolta la scarpina?” – ai malati e ai vecchi – “Ora facciamo una punturina, poi un riposino”, in ospedale, nella Rsa – ai detenuti – “La domandina” – e per definizione ai bambini (e agli animali domestici). E c’è un modo di “capire” gli altri - “i giovani”, per esempio, e soprattutto le persone con disabilità – che le compatisce e le deresponsabilizza, piuttosto che esprimere vicinanza e rispetto. Direi questo, io normodotato ma vecchio e fuor dei gangheri: che abbiamo tutti una certa disabilità a trattare le persone con disabilità (ho lasciato il maschile, perché qui, nella vicinanza e nella cura, si mostra l’altra faccia dell’irrisorio 4 per cento di donne detenute).

Quanto a ironia, e autoironia, è la benvenuta, avverte Iacopo, purché sia un “ridere con” e non un “ridere di”. E non sguazzare nella correttezza politica, tantomeno nel contrario. Se l’Unione Ciechi li chiama, si chiama, ciechi, “perché mai le altre persone dovrebbero chiamarli non vedenti?”. E la sessualità? – direte. C’è, c’è. Avverte prima di tutto della eventualità che le persone con disabilità siano a loro volta, oltre che attratte, attraenti. “Avete presente il film ‘The Sessions - Gli incontri” del 2012, con Helen Hunt, John Hawkes e William Hall Macy? Ecco, scordatevelo”. L’assistente sessuale, la prostituzione regolamentata, la terapia intima “completa”, non hanno cittadinanza da noi. Da noi c’è una (ri)proposta di legge sull’Oeas, Operatrice/ore all’Affettività, all’Emotività e alla Sessualità, che si concentra sull’aspetto formativo e di sostegno terapeutico. “Il cui compito è aiutare sia chi ha una grave difficoltà fisica o cognitiva a esplorare la propria sessualità, e quindi a sviluppare competenze adeguate per una intimità il più possibile serena, sia le famiglie e i caregiver per rendere il contesto intimo (che dovrebbe sempre essere fondato sulla privacy) aperto, inclusivo e consapevole… Le paure più comuni delle persone con disabilità nel vivere la propria sfera sessuale includono il timore di non essere fisicamente capaci di attrarre o di soddisfare il partner, la paura del rifiuto, perfino l’ansia legata alla possibilità di provare dolore o disagio fisico durante l’intimità. E’ possibile inoltre temere di essere percepite come persone asessuate o fragili”. Un insieme di condizioni che coinvolgono le famiglie, i/le partner, e la collaborazione psicologica. In realtà chiunque ha il diritto di vivere ed esprimere la propria intimità come meglio preferisce. Questo vale a ricordare “che la sessualità non si limita, per chiunque, al rapporto sessuale più classico secondo il senso comune (ovvero la penetrazione naturale) ma può comprendere una vasta gamma di esperienze intime e di connessioni, come il contatto fisico, le carezze, l’esplorazione emotiva e altre forme di espressione affettiva (il petting, per intendersi, per molte persone ritenuto la parte più appagante dell’esperienza intima)”.

Il resto lo leggerete. Manca una trentina di pagine su che cosa fare e che cosa non fare, noi e le autorità costituite. L’ironia e il buonumore sono sciorinate dalla prima all’ultima pagina. “Spero – dice in fondo – che questo libro vi sia stato il più inutile possibile”.

Di più su questi argomenti: