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S'invoca il cambiamento culturale, ma gli uomini continuano a uccidere le donne

Adriano Sofri

La mentalità ha bisogno della lunga durata, e bisogna sbrigarsi con l’intervento dei carabinieri, la stessa carcerazione che risponda a una minaccia comprovata e incombente. Per limitare l’obbrobrio

A Rufina, Firenze, e a Venaria, Torino, i titoli, staccati di nemmeno un giorno, sono così simili da far pensare a una stessa notizia: uomo che uccide la moglie accoltellandola alla schiena e poi tenta il suicidio. I dettagli poi sembrano distanziare i fatti: alla Rufina i due coniugi sono trentenni, lavorano ambedue, lui è un architetto, hanno un bambino di un anno e mezzo, l’aggettivo ricorrente è “tranquilli”, qualcuno si spinge a ripetere la formula della “coppia perfetta”. Niente di più allarmante che l’aggettivo “tranquillo” e la “coppia perfetta”. A Venaria cinquantenni, meno agiati, lui invalido, di modi brutali, i vicini “l’avevano sentito dire tante volte che l’avrebbe uccisa, ma non se lo aspettavano”. Lei sì. Nello stesso paio di giorni, un altro uomo finisce per confessare di aver ucciso, due settimane prima, la sua compagna, e di averne buttato da qualche parte il cadavere, senza ricordare bene dove.

Che ne è dunque dell’emozione accesa attorno ai femminicidi e la mobilitazione di coscienze e misure pratiche che sembrava aver suscitato? Qualche “esperto” avverte che l’attenzione sollevata sul tema può addirittura fomentare l’emulazione, argomento frequente quanto desolante. E’ un fatto che l’uomo che spinge la propria violenza contro la “sua” donna fino al punto di ucciderla, e infierendo, mostra di essere illeso dalla condanna pubblica e di trattare la propria rabbia, frustrazione, offesa, e qualsiasi altro nome dia al proprio imbestiamento, come un affare del tutto personale, che riguardi solo lui, una prima inesorabile volta. E il suicidio, riuscito o mancato, a volte vero più spesso simulato o dimezzato, vale a coronare il gesto ultimativo. Non voglio certo dire che l’impegno all’educazione, all’esempio morale, al piacere paziente dell’allargamento delle maglie e dello scioglimento dei nodi, non sia un compito cruciale, a cominciare dall’infanzia. Tuttavia, il “cambiamento culturale” invocato di prammatica farebbe bene a rassegnarsi all’enorme divario fra il suo tempo largo e quello stretto di una cultura arcaica ed emarginata dal cambiamento troppo svelto dei modi di vita. I vicini, dove ancora esistono, e sentono dire “prima o poi la uccido”, e “non ci possono credere”. I familiari, che poi costernati dicono: “Negli ultimi tempi non era più lui…”. La mentalità ha bisogno della lunga durata, e bisogna sbrigarsi con l’intervento dei carabinieri, la cavigliera elettronica (funzionante), la stessa carcerazione che risponda a una minaccia comprovata e incombente, per limitare l’obbrobrio che mette donne, indipendentemente dalle loro differenze, in balia di uomini.

Le carceri italiane, famigerate e spesso compiaciute del proprio sovraffollamento, folla sopra folla, continuano ad avere una quota di detenute del 4 per cento sul totale della cosiddetta popolazione penitenziaria. (E’ più o meno così nel resto d’Europa). E il dato è costante, cioè non registra alcun cambiamento – il progresso consisterebbe in un aumento della criminalità femminile. Se non mi sfugge qualcosa, questo dato è incomparabile con qualsiasi altro sullo squilibrio fra i sessi, negli stipendi o nei ruoli socialmente rilevanti. La stessa irrisoria percentuale misura l’uccisione di uomini da parte di loro partner femminili, e il fallimento del nome polemico di “maschicidio”.

Studiose e militanti donne si sono occupate di questo fenomeno e della sua storia. Ma la considerazione pubblica è ancora sorprendentemente distratta. La statistica sulla popolazione carceraria è un altro modo per dire che una donna che si innamori di un uomo – uso questa terminologia, che continua ad avere un senso – ha ragione di mettere nel conto il rischio per la propria incolumità, preoccupazione che un uomo ha ragione di ignorare. Viceversa, un uomo che si innamori di una donna ha ragione di mettere nel conto il rischio che farà correre alla donna di cui si è innamorato. Fino all’estremo.

Leggevo ieri, in un’intervista sulla Stampa di Simonetta Sciandivasci a Rossana Campo, questo passo, su un tema che abbiamo ritrattato nei giorni scorsi: “Gli autori dei grandi romanzi e delle grandi opere liriche che hanno dato vita a eroine avidamente attaccate alla vita, se pure le hanno raccontate con passione, hanno finito sempre per farle morire ammazzate o suicide. Anche se inconsciamente, le punivano. Non credo sia un caso che le scrittrici che hanno dato vita a personaggi altrettanto vitali e problematici, non li abbiano poi uccisi”. Anche grandi romanzieri e librettisti sono stati in regola con l’infima percentuale di donne “delinquenti”. 

Sempre ieri ho trovato questo brano di Hannah Arendt: “La verità è che io non ho mai avuto la pretesa di essere altro o diversa da quella che sono, né ho mai avuto la tentazione di esserlo. Sarebbe stato come dire che ero un uomo e non una donna: ossia qualcosa di insensato... Esiste una sorta di gratitudine di fondo per tutto ciò che è com’è…”. Arendt trattava del suo rapporto con l’ebraicità, ma le sue parole mi paiono appropriate a un altro fenomeno di questi giorni, che è una esacerbazione forse irreparabile, quanto ai toni reciproci, della (delle) divergenza fra posizioni originariamente femministe. Già forti e aspramente espresse, queste divergenze, che coinvolgono fortemente benché di rimando anche gli uomini, sono chimicamente precipitate dall’avvento del regime trumpiano e dalla sua vendetta su ogni valorizzazione delle differenze che non siano quella fra chi ha il potere e chi invece non ce l’ha. Non saprei discuterne adeguatamente, e forse per questo mi sembra di riconoscere molto di interessante e di fecondo in posizioni che si presentano a vicenda come inconciliabili e risentite: come un turatiano nel ’21, per sorridere un po’ di me. Ma il cedimento allo spirito della rottura e della demarcazione è una tentazione micidiale del ’22, del ’33, e del 2025.