Volodymyr Zelensky (Ansa) 

Piccola Posta

La carta che ha in mano Zelensky nell'ora più buia della sua Ucraina

Adriano Sofri

Trump ha arreso l'Ucraina a Putin e ora il presidente ucraino può provare a opporsi a condizione di avere dietro il popolo. Ma non ce l'ha più, non abbastanza. Imbecille chi pensava che Trump e Biden fossero la stessa minestra

Ricordare che le cose potevano andare diversamente, può sembrare una perdita di tempo, e però serve a ricordare che potranno andare diversamente. Joe Biden giocò e perse una partita epocale quando non fu intelligente e generoso abbastanza da preparare la strada a una o un proprio successore, e si beò della propria rielezione. Trump era nella condizione più compromessa, e avrebbe affidato le sue carte solo a una disperata partita di sconfessione della sconfitta elettorale e di appello a un altro 6 gennaio. Sarebbe in galera.


La differenza fra quello che Trump (e Musk, e la loro corte dei miracoli) promettevano in campagna e quello che freneticamente fanno, semplicemente non c’è. L’incredulità di oggi – un’intera scolaresca planetaria a bocca aperta – è il complemento della credulità di ieri. Poi c’è, ennesima, la lezione a quelli sinceri, che “Biden o Trump, è la stessa minestra”: imbecilli. Gli unici autorizzati a non pentirsene sono gli ipocriti che in cuore si auguravano Trump, e oggi gongolano. 


I sostenitori della causa ucraina, dai più o meno potenti alla gente comune, cioè le persone decenti, hanno ritenuto in troppi casi di dover persuadere se stessi e gli altri del radioso svolgimento della guerra, impedendosi di vederne le difficoltà. Hanno frainteso il rispetto per l’autonomia delle decisioni dei leader ucraini, dei combattenti, della gente, rinunciando alla franchezza di un confronto progressivo con le scelte politiche e le loro conseguenze. Hanno frainteso la comprensione per l’offesa dell’invasione e la memoria della sopraffazione storica dell’imperialismo grande-russo, vietandosi il confronto culturale e civile sugli integralismi nazionalisti. E hanno guardato agli sviluppi della guerra – soprattutto i governi alleati e i loro stati maggiori – ignorando le retrovie della vita civile, quelle in cui, in un conflitto di così lunga durata, si gioca una parte almeno equivalente a quella combattuta sui fronti. 


Dalla mancata, e vanamente sbandierata, controffensiva del 2023, la dissociazione fra il sentimento di ripudio della prepotenza russa e la disposizione a prendere il proprio posto al fronte non ha fatto che crescere. Era un imperdonabile equivoco anche credere che la renitenza via via più larga alla mobilitazione tra i cittadini ucraini significasse una minor avversione al nemico russo. Equivoci di questo genere, calorosamente alimentati, si sono perpetuati attorno all’Ucraina: come quello che confonde russofonia con russofilia. Ma è un fatto che si sia consumato l’impulso volontario a prendere le armi, e che la simpatia della popolazione, forte com’è verso i combattenti, sia ormai altrettanto forte verso renitenti e “disertori”, e si manifesti spesso nell’aiuto offerto loro. Oggi, la Russia, dato fondo ai reclutamenti suicidi dei detenuti (e delle minoranze, e dei nordcoreani, e dei mercenari internazionali) alletta le nuove reclute con la promessa di 5,2 milioni di rubli di paga annua, che fa 53 mila euro (non 520 mila, come il proto fa dire ieri alla brava Rosalba Castelletti su Repubblica). Roulette russa. L’Ucraina promette ai giovani dai 18 anni in su (l’obbligo parte dai 25) un milione di grivne, che sono 23 mila euro, 200 mila subito, 300 più in là, e 500 al momento del congedo – mai.

Militari impegnati al fronte da anni, senza rincalzi, addestrati, da altri o da sé, a specializzazioni preziose, vengono bruscamente trasferiti all’emergenza delle fanterie. Renitenti e “disertori” vivono nascosti, protetti o venduti, e forse un giorno chi li abbia aiutati a scampare alle violenze dei reclutatori sarà commemorato fra i giusti, accanto e non contro i caduti al fronte. Zelensky, nell’ora più buia – molto prima, del resto – ha una carta importante agli occhi della sua gente: restare al suo posto annunciando la rinuncia a ricandidarsi. Così mi pareva e mi pare ancora, benché si sia fatto molto tardi. Le frettolose misure contro Poroshenko e un pugno di altri oligarchi, pur corrotti come sono e già peraltro sanzionati, fanno dubitare del contrario, di un attaccamento a oltranza di Zelensky e della sua stretta cerchia. Alla resa “proxy” di Trump, che ha arreso l’Ucraina a Putin, Zelensky può provare a opporsi, a condizione di avere dietro il popolo ucraino: non ce l’ha più, non abbastanza. Continua a risarcire con la sua esposizione internazionale la perdita di consensi interna: ma ha a che fare con il comitato d’affari americano che si compiace di umiliare i suoi alleati. Può essere tentato di immolarsi, voglio sperare solo simbolicamente, alla arroganza trumpista. Tre anni fa mostrò di saperlo fare. 


Le terre rare, disseppellite in extremis, non sono una risorsa, Trump le ha già dichiarate sue, come la riviera di Gaza. Il rinvio delle elezioni, di cui Trump invece sembra caldeggiare la tenuta facendo anche qui eco a Putin, continua ad avere le più sensate motivazioni: ma è inimmaginabile un qualunque risultato, anche provvisorio, di un negoziato, che non sia sottoposto a un referendum o comunque a una consultazione degli ucraini. Saranno quelle, le vere elezioni. E intanto l’eventualità di disordini e di ribellioni, di ambizioni politiche o più drammaticamente di colpi di mano di veterani militari, è nel conto.  E in ogni caso, anche nel più vergognoso scenario “afghano”, come quello della rotta americana del ‘21, buona parte dell’Ucraina non si rassegnerà a un padrone che consideri oppressore o traditore. (Il nazionalismo dell’Ucraina occidentale continuò una sua guerriglia antisovietica fin quasi alla metà degli anni Cinquanta).