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LaPresse
Una profezia machiavellica per l'Europa di oggi
Per l'autore de "Il Principe" alla salvezza si arriva dall’emergenza: l'arciere prudente deve mirare più in alto rispetto alla meta desiderata. Un invito più che mai valido per il Vecchio Continente
Nel capitolo VI del “Principe”, Machiavelli usa un’immagine balistica suggestiva. Bisogna fare, scrive, “come gli arcieri prudenti, a’ quali parendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere, con lo aiuto di sì alta mira, pervenire al disegno loro”.
L’immagine si addice alla situazione dell’Europa. In quel famoso capitolo si trattava del modo di procurarsi “principati nuovi”, e l’Europa, compresa l’Unione europea, è vecchia per definizione. Ma il cambiamento che le si prospetta è così dirompente da corrispondere a uno dei “Principati nuovi, che con le proprie armi e virtù si acquistano”.
Non si può ignorare che l’impresa appaia quasi inesorabilmente fuori della portata di un’Europa che si descrive ancora come la custode delle libertà dell’occidente, nel momento in cui libertà e occidente vengono ripudiati dagli Stati Uniti d’America, almeno dalla metà più uno che si è presa il potere e lo esercita di prepotenza. Non c’è un solo governo europeo oggi che possa dirsi al riparo dall’assalto di partiti chiusi e vendicativi. Ma è vero che dov’è il pericolo cresce anche la salvezza, concetto che Machiavelli enuncia sulla scorta della storia dei grandi, la cui virtù si sarebbe spenta se non le si fosse offerta l’occasione. E l’occasione coincideva con l’emergenza: “Era necessario a Moisè trovare il popolo d’Isdrael in Egitto schiavo, e oppresso dagli Egizi, acciocchè quelli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo… Non poteva Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli Ateniesi dispersi”. Machiavelli parlava del principe, e per l’Europa dei 27, compresa qualche decorativa monarchia, si può tutt’al più alludere al mito di “un unico stato”, come ha appena fatto Draghi. E non ci sono profeti, ma disarmati sì, e la conclusione di Machiavelli resta valida: “Di qui nacque che tutti li Profeti armati vinsono, e li disarmati rovinarono”. Li disarmati sanno da sempre di esserlo, anche se reagiscono a Trump come una signorina cui sia stata sollevata la gonna a tradimento. Macron, che non era tagliato per conquistare il cuore dei francesi, aveva fatto qualche timida avance sull’offerta della propria atomica all’Unione, mentre da Mosca si tuonava su Berlino o Parigi o Londra sbriciolate nel giro di minuti.
Zelensky, prima di mettere sul piatto le terre rare (bella espressione del resto, le mille e una notte ucraine) aveva candidato il proprio esercito a far da nerbo della forza armata comune. Strane mosse da bottega, per una guerra di resistenza lodata dagli alleati come combattuta per il bene comune, e di colpo prestata a usura. Di colpo, anche i meno vili e servili si mostrano persuasi che gli ucraini si siano prestati a una proxy war, e che a Instanbul davvero Putin, ricacciato ignobilmente oltre Kharkiv, non vedesse l’ora di negoziare e concludere. Su Zelensky, il tono è pressoché unanime, appena con gradazioni di Schadenfreude: E adesso, pover’uomo? In realtà, Zelensky ha, se non un coltello, un temperino dalla parte del manico. I suoi consensi, che Trump ha dato al 4 per cento, sono saliti al 57. Aveva troppo protratto il momento di aggiustare il tiro, e tenuto cocciutamente duro sul malaugurato slogan della vittoria. Probabilmente perché non se la sarebbe sentita di annunciare alla sua gente un qualunque passo indietro. Si era ridotto ad aspettare – l’avevo scritto parecchio tempo fa – che qualcuno, e in particolare Trump, gli dicesse pubblicamente: bisogna finirla, vi lascerò senza armi, sarà la mia responsabilità. Zelensky e i suoi avrebbero potuto rispondere: dobbiamo cedere alla forza maggiore, non dipende più dalla nostra volontà. Oppure rifiutarsi di mettere la propria firma sotto il compromesso imposto, rivendicarsene estranei, passare la mano. In ogni caso uscirne come i protagonisti di una vittoria mutilata. Così è, dopo che l’incontro di Riad ha messo oltraggiosamente fine al lumicino di speranza su un Trump in bilico. Il coltello per il manico ce l’ha Trump, perché non è difficile pensare che tanti ucraini siano così esausti e offesi da rassegnarsi a qualunque soperchieria, pur di farla finita.
Quanto al nostro piccolo, la ribalta indiavolata del mondo mi pare mostrare che i partiti attori della politica nazionale, e le attrici personali, siano destinate a rimescolare le carte. A cominciare dall’equivoco più triviale, quello dell’alleanza fra Pd e 5 stelle. Affini i secondi, una loro buona parte, alla Lega, così negli espedienti demagogici come nelle mosse affannate dei leader. Mi sembra questo l’effetto più rilevante del manifesto politico firmato qui da Marina Berlusconi. Che possa adattarsi a lungo alla triplice alleanza di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia è inverosimile. Del resto, non è spiritoso : “E’ un’imprenditrice, e può dire quello che vuole”? Tante grazie, gentile. Quanto al resto, ci si è fatti sequestrare dal doppio ricatto della guerra e dell’immigrazione – dall’anelito alla resa universale. Dell’immigrazione, salvo non cedere alla malvagità verso il proprio prossimo, bisognerebbe magari dire meno cose diverse, e soprattutto fare più cose diverse. E’ provato che susciti regressioni rancorose e autoritarie – è provato da trent’anni. Se di migranti c’è bisogno, allora il famoso piano Marshall va praticato prima di tutto a casa nostra. Il Pd, una volta che ragioni in grande, si libererà magari anche della furbizia che illude di tenere insieme ipocrisia sedicente pacifista (gratis) e solidarietà pratica con l’aggredito. Accrescere la percentuale nazionale di reddito devoluta alla difesa è un’idiozia: ingrasserebbe armieri e intendenza. Mettere le proprie risorse insieme a quelle degli altri paesi che si affidino davvero a una difesa europea, tanti o pochi che siano, è una condizione obbligata. Sentir ripetere ancora che “bisogna superare il tabù dell’unanimità” fa digrignare i denti.
Bisogna fare come l’arciere prudente. E salute alla sfinita contraerea di Odessa.