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Piccola Posta

L'orgoglio di Zelensky tra paternalismo alleato e minacce americane

Adriano Sofri

A differenza dei suoi alleati, il presidente ucraino sa che il suo popolo è stato sottoposto a una prova così dura da poter cedere di schianto. Così, ha obbedito alle raccomandazioni, rinunciando persino a definire la pace "giusta". In nome della responsabilità

Il paternalismo alleato verso Zelensky e la sua maglietta fina è spettacolarmente cresciuto, al ritorno dal ricevimento dello Studio Ovale. A Londra, sembrava ancora più piccolo e più mascotte, sotto gli abbracci dei parenti benestanti. L’annuncio, vedremo quanto verace, del ritorno a Washington con la tutela di Starmer e Macron ne perfeziona una riabilitazione da Pinocchio. Zelensky intanto aveva obbedito alle raccomandazioni, offerto a Trump un rammarico vicino alla penitenza e una disponibilità pressoché senza condizioni ad accordo minerario, tregua e, finalmente, pace – se non “giusta”, per non irritarlo, “duratura”. Ha fatto benissimo, naturalmente, e non solo perché non poteva fare altro, dopo che Trump aveva fermato aiuti di armi e di intelligence. Si può sempre fare altro, del resto, e anche un piccolo filisteo può desiderare di rovinare addosso a tanti sansoni. La renitenza alla Casa Bianca aveva procurato a Zelensky un ritorno di riconoscenza e solidarietà tra la gente ucraina, offesa quanto e più di lui, e lui ne aveva fatto tesoro al punto di rivendicare che sarebbe rimasto candidato in qualsiasi elezione futura. Ma la reazione orgogliosa degli ucraini avrebbe inesorabilmente ceduto alla frustrazione del tradimento americano che nessuna promessa europea, per ingente che fosse, poteva risarcire in tempo. Nel breve periodo, sanno gli ucraini, siamo tutti morti. 


E’ straordinario fino a che punto ci si accechi pur di non vedere. “I nostri” si erano affannati a strappare Trump alla sua vergognosa equidistanza tra aggressore e aggredito. Zelensky se l’era riproposto, che ci credesse o no. Ma Trump stava e sta senz’altro dalla parte dell’aggressore, e se ne vanta. Ogni tanto ha anche lui un momento di debolezza, e fa passare l’amore di Putin per una convenienza di mediatore, ma non funziona. “Di lui mi fido. A me non farebbe mai quello che ha fatto a un altro. Lo conosco da molto tempo”. Lo conosce da molto tempo, infatti.
Pioggerella d’oro o no – perché no, del resto – i trascorsi di Trump e Putin sono il punto eventuale di rottura dell’avventura che Trump e la sua corte stanno precipitosamente conducendo dopo aver rovesciato l’esperienza del 2021. Allora, persa l’elezione, aveva azzardato la rivalsa del colpo di mano sul Campidoglio. Questa volta, vinta l’elezione, corre a rimuovere tutti gli ostacoli che ingombrino il suo impero di quasi ottuagenario, e dei suoi eredi. Le chiama ordinanze esecutive, le enumera, se ne gloria: meglio di George Washington. E ammicca di là dall’Europa, fra uomini che si conoscono da tanto tempo. 


A differenza dai suoi alleati, che sembrano ragionare solo di balistica e finanza, Zelensky sa che la società ucraina è stata sottoposta a una prova così dura e lunga da poter cedere di schianto. Ed è a questo che Putin mira come alla sua vera vittoria, e gli fa continuare a oltranza la demolizione dei bombardamenti, del freddo del buio e della fame, al costo spietato delle sue truppe cui la resistenza davvero eroica degli ucraini contende metro per metro. Zelensky non poteva che mostrare ai suoi connazionali, dopo la prova alla Casa Bianca, di saper rinunciare senza riserve all’orgoglio in nome della responsabilità. Da molto tempo ripeto che, inchiodato al “piano della vittoria”, Zelensky rinviava al momento in cui si sarebbe potuto dire forzato dagli alleati al “compromesso” cui spontaneamente non si sarebbe mai piegato. Succedeva quando era in vigore Biden, e la rielezione di Trump sembrava ancora chimerica. A novembre avevo scritto: “Qualcuno potrà contare su un gioco delle parti. Trump dirà pubblicamente a Zelensky e agli ucraini: bisogna finirla, vi lascerò senza armi, sarà la mia responsabilità. Immaginando che Zelensky e i suoi rispondano: dobbiamo cedere alla forza maggiore, non dipende più dalla nostra volontà. Zelensky e i suoi (quelli che gli resteranno in un momento così drammatico) potrebbero anche rifiutarsi di mettere la propria firma sotto il compromesso imposto, rivendicarsi estranei, passare la mano. … Comunque vada, è fin d’ora certo che l’Ucraina aggiungerà al suo tremendo costo di vite, sentimenti e cose, la micidiale mitologia della vittoria mutilata”. Siamo a quel punto, anzi, come dice Trump – “su Marte e oltre!” – molto oltre. 


Intanto Putin e i suoi, i nostri suoi, riprendono la menzogna secondo cui è difficile negoziare con Zelensky, che “decretò il divieto a tutti gli ucraini di negoziare con i russi”. Zelensky emanò il suo decreto il 4 ottobre 2022, e quattro giorni prima Putin, a ridosso dei referendum farsa nelle regioni solo parzialmente occupate dalle sue truppe, le aveva dichiarate per intero – Zaporizhia, Donetsk, Lugantsk, Kherson – territorio della madre Russia, dunque non negoziabili, in nessuna circostanza. Zelensky non si era bruciato i vascelli alle spalle, se non replicando a Putin che l’aveva solennemente fatto per primo, e accompagnandolo con la minaccia dell'atomica. Mi cito, 1° ottobre 2022: “Putin deve aver creduto di aver messo l’Ucraina e i suoi alleati con le spalle al muro… Non so se abbia capito di bruciarsi i vascelli alle spalle, e abbia scelto deliberatamente di farlo, perché azzardo e bluff non possono che rincararsi… C’è la solenne proclamazione dei quattro territori occupati come annessi alla grande patria russa, grazie ai referendum-farsa, e l’implicita pretesa che questo scherzo da Kirill autorizzi il ricorso russo a tutte le armi, nessuna esclusa”.