
LaPresse
Piccola Posta
Il mio diario di guerra e pace. E quelle lettere in Danimarca
Guerra e pace, nella loro combinazione, prendono in ostaggio chi le pronuncia e le tramuta in esorcismi. Mercanti d'armi, tardo-futuristi e fornitori d'intendenza a parte, come si fa a immaginare il prossimo desideroso di guerra o nemico della pace?
Tengo un diario. 11 marzo. “La guerra mondiale spaventa 4 italiani su 10” (La Stampa, prima pagina). E 6 no? Guerra e pace, soprattutto nella loro combinazione (si riflette poco all’uso tolstojano della congiunzione “e”, “Vaynà i Mir”, invece della disgiuntiva “o”) prendono in ostaggio chi le pronuncia e le tramuta in esorcismi. Mercanti d’armi, tardo-futuristi e fornitori d’intendenza a parte, come si fa a immaginare il prossimo desideroso di guerra o nemico della pace? C’è una guerra che non perché si vergogni di sé – se ne gloria, al contrario – ma per mettersi la divisa da parata e soffiare fumo negli occhi vuole chiamarsi operazione militare speciale. Se le va liscio, gli altri la chiamano guerra, o invasione, non battono ciglio, e finita lì: la Crimea. Se le va storto, e dopo tre anni è ancora lì a bombardare, e arrestare in patria chi la chiami guerra, si guadagna una simpatia, o almeno una vanitosa rassegnazione, da chi sente di amare la pace, e specialmente la propria – quella dei propri figli, e nipoti, pensa. Di colpo, la guerra della Russia (e alleati: i primi Cina, Iran, Corea del nord) contro l’occidente, diventa guerra della Russia (e alleati, idem) e degli Usa, contro l’Ucraina (e l’Europa oscillante). Un cataclisma arduo da maneggiare, sentimentalmente, mentalmente, lessicalmente: si pensa al si salvi chi può, si ripara nell’understatement. Un commentatore saggio come Stefano Folli, su Rep.: “Un certo grado di smarrimento è inevitabile”. Uno storico saggio come Marc Lazar, sulla Stampa: “Personalmente sono un po’ pessimista”. (Forrest Gump, a suo tempo: “Sono un po’ stanchino. Credo che tornerò a casa, ora”).
Ci si aggrappa alla frontiera fra violenza e belligeranza, anche invocando, con un invidiabile zelo, la radicale e primigenia differenza femminile. La guerra, il riarmo eccetera, è affare maschile, dunque virile, comprese le degenerazioni maschiliste del femminile, Ursula, Kaja eccetera. Succede però che la violenza sia perseguita come un valore, etico e propedeutico alla guerra aperta, di indipendenza nazionale, o di classe e rivoluzionaria. Ieri dunque al processo, cinquant’anni dopo, per la sparatoria alla Cascina Spiotta, Lauro Azzolini, 82 anni, già brigatista, già condannato a quattro ergastoli, ha detto di essersi trovato sul luogo dei fatti, in cui restò ucciso il carabiniere Giovanni D’Alfonso, di aver reagito con la grossolana impreparazione militare che contraddistingueva allora i brigatisti, ha spiegato l’estraneità dei coimputati Curcio e Moretti, ha confermato che Mara Cagol, “si era arresa, disarmata e con entrambe le braccia alzate, e gridava di non sparare”. Fu sparata. Ha detto del proprio dolore incancellabile per quel “giorno maledetto”, in cui “era successo quello che non doveva mai succedere”. Ha ricordato di aver desiderato la rivoluzione. Per lui e i suoi e le sue di allora voleva dire, sappiamo, l’avvicinamento a una guerra civile, la forma di guerra cui i rivoluzionari, dal ‘17 sovietico alla guerra partigiana, avevano aspirato come al riscatto del proprio onore, o alla fine di tutte le guerre.
Nei proclami sbrigativi che riempiono i commenti di oggi sulla difesa europea, e perfino sull’invito “ingenuo” a manifestare l’attaccamento all’Europa, mai così esasperati lungo i tre anni della vera grande guerra ucraina, ricorre, accanto alla polemica contro un supposto o reale virilismo illeso da mezzo secolo e più di femminismo, un’accusa di volersi guerrieri al posto degli altri, ad “armiamoci e partite”, una rivendicazione tristissima a “mandarci i vostri figli”. Come Azzolini ha imparato bene, e da molto tempo, e ha detto bene ieri, può succedere, succede, di volersi guerrieri, di armarsi e partire, di farla pagare e pagarla di persona. E la guerra, “invisa alle madri”, è invisa anche ai padri e ai nonni – e ai figli, divisi, com’è stato in Ucraina, fra chi accorre sulla linea del fronte e chi ne fugge: e al sentimento di tradimento dei primi, e di colpa dei secondi. E al cinismo degli spettatori, delle spettatrici: naufragio con spettatori, al di qua della barriera di sicurezza.
Il mio diario annota che il Memoriale di Srebrenica – quando ricorre, il prossimo 11 luglio, il trentennale del massacro sanzionato come genocidio – è stato chiuso “per motivi di sicurezza, in seguito al colpo di stato in corso contro le istituzioni statali da parte di gruppi ribelli con sede a Banja Luka”. La capitale di quella Republika Srpska in cui il despota Dodik, col sostegno di Belgrado e di Mosca, ha rincarato i toni secessionisti dopo la condanna per il disconoscimento dell’Alta rappresentanza in Bosnia-Herzegovina. La fine della guerra guerreggiata – la “pace” – di Dayton lasciò Srebrenica dentro i confini della Republika Srpska, cioè dei perpetratori del massacro da macellai di almeno 8.372 civili bosgnacchi, ragazzi e uomini. Quella “guerra” ebbe fine, dopo una furia pressoché incontrastata durata più di 3 anni e mezzo, solo quando la Nato, su mandato dell’Onu, decise di bombardare le basi serbiste. Gli aerei decollarono soprattutto dalle basi italiane di Aviano e Istrana, dove qualche pacifista volle anche allora promuovere proteste e boicottaggi. Alla vigilia di Srebrenica, si era impiccato a un albicocco, a Firenze, Alexander Langer, al cui nome oggi si ricorre, perché il tempo dei fraintendimenti non è mai sazio. La sola guerra in Bosnia-Herzegovina – non dunque in tutta la ex Jugoslavia – fece almeno 105 mila morti, 68 mila dei quali bosgnacchi. Il bombardamento Nato che ne segnò la fine fece 203 morti, tra soldati e civili serbo-bosniaci.
Non vedo l’ora che finisca il mattatoio ucraino, di persone, sentimenti e cose. Il mio diario di ieri annota l’imminenza del negoziato sulla possibilità di metter fine alla guerra d’aggressione russa all’Ucraina. Il negoziato si svolge a Gedda, e vede di fronte, non ucraini e russi, ma ucraini e statunitensi. Si è così finalmente arrivati ai negoziati accoratamente richiesti in nome della pace da tante e tanti, dal bravo Papa all’ultima persona angosciata dalla guerra. La provvidenza, che sa mutare l’acqua in vino e moltiplicare pane e pesci, sa moltiplicare i negoziati, oggi fra ucraini e americani, domani, ma più cordialmente, fra americani e ucraini – metà per uno. Quella di Trump e Vance e Musk e Rubio, non è la guerra, è la pace, imposta con la violenza e il ricatto, al costo di una guerra che si procura di rendere più sopraffattrice. Giochi di parole. Guerra o pace – la borsa o la vita.
L’ultima annotazione del mio diario riguarda l’annunciata fine del servizio postale per la corrispondenza in Danimarca, avanguardia di ciò che seguirà nel resto d’Europa e nel mondo. Servizio per soli pacchi. Ho smesso da tempo di essere triste per la scomparsa delle lettere, appena più tardi dei miei simili, perché chi ha conosciuto la galera sa che cosa vuol dire. Ora, nel mio resto da libero, penso alle cartoline illustrate. Lo so che sopravvivranno almeno un po’, perché si comprano per ricordare dove si è stati, collezionarle, e lasciarle allo smaltimento degli eredi. Ma quelli come Alex, come me, sceglievano la cartolina, le adattavano il francobollo, ne studiavano il testo e la grafica, e tenevano a collezionarle “viaggiate”. Del resto anche i pacchi saranno sempre più affare dei droni.

Piccola Posta