
Guerra civile spagnola (foto Olycom)
Piccola Posta
Le due Spagne in guerra nei “Girasoli” di Méndez, oggi al tempo delle due Europe
La guerra civile è il modello di tutte le carneficine di oggi. Di quella spagnola e delle sue cicatrici si può apprendere molto dal romanzo di Alberto Méndez, autore di questo solo libro. E si può poi riflettere sull'8 settembre italiano, sui due Vietnam, sulle due Germanie, sulle due Coree, sui due Sudan. Sulle due Ucraine? Sulle due Europe?
Leonardo Sciascia, che fu molto legato alla Spagna, scrisse: “Il terrore da uomo a uomo, tra i vicini, tra i familiari è proprio alle guerre civili: ma in Spagna arrivò a un parossismo che si potrebbe condensare in questo paradossale e tragico precetto: uccidi il prossimo tuo come te stesso”. La guerra civile è, più o meno mascherata, il modello di tutte le carneficine di oggi: con l’aggravante di essere apprezzata, come una versione superiore della guerra. Ho scritto un testo che accompagna la pubblicazione, per Sellerio, di un bellissimo romanzo di Alberto Méndez, “I girasoli ciechi” (tradotto da Bruno Arpaia, era uscito, in una sconcertante distrazione, per Guanda, nel 2006). Non la so lunga sulla Spagna del franchismo e dopo, ne ho imparato qualcosa. Anche per somiglianza, e soprattutto per differenza, con la nostra guerra civile e il nostro Dopoguerra e la nostra amnistia da “vincitori”.
La storia di Méndez romanziere sta in poche righe, comincia e finisce. “Nacqui nel 1941 e la guerra civile spagnola stava nella memoria di coloro cui ero caro, e io ricevetti per osmosi quella memoria che mi arrivava sotto forma di affetto, raccontata e nascosta dalla bassa voce; ho recuperato la memoria per vedere com’erano loro, i miei genitori, i miei zii”. Era nato nel 1941, a Roma, dove suo padre, poeta e traduttore, in una specie di esilio politico scelto, lavorava alla Fao. A Roma Alberto tornò per un periodo dopo essere stato espulso dall’università, nel 1964: si era esposto in una manifestazione politica. In Spagna ha lavorato a lungo per l’editoria, è stato traduttore da molte lingue. E’ stato iscritto al Partito comunista fino al 1982. E’ morto a Madrid il 30 dicembre del 2004. Nello stesso anno, a fine gennaio, era uscito questo suo unico romanzo. La circostanza di essere stato lo scrittore di un libro solo, per di più pubblicato a 63 anni, si aggiunse alla morte, che gli impedì di vedere se non i primi segni del successo straordinario dei suoi “Girasoli”. Che ottennero postumamente i più prestigiosi premi e, grazie soprattutto a un travolgente passaparola, 400 mila copie vendute in patria, la traduzione in molti paesi, la versione cinematografica, uscita nel 2008.
Resta una sola vera intervista a Méndez, gliela fece un giovane sociologo, César Rendueles. R.: “La nota biografica che compare sulla sovraccoperta del romanzo è molto breve e non elenca i libri precedenti”. M.: “Perché non li ho scritti. Questo è il primo. La verità è che non ho avuto tempo. Mettendo insieme i figli e il lavoro, il tempo libero arriva molto tardi”. Di sé Méndez, un paio di mesi prima di morire, in una mail a un amico, scrisse: “La mia è stata, e intendo che resti, una vita oscura e oscurata dalla dedizione al lavoro e alla famiglia. Il resto è stato la mia militanza politica, la clandestinità a un’ossessione tanto fallimentare quanto malaticcia di contribuire alla caduta della dittatura. Il brutto è che, oltre a non cadere, mi rovesciò addosso tutta la sporcizia che emanava”. Dice: “Se il cuore pensasse, smetterebbe di battere”. Il crepacuore è l’irruzione del pensiero nel battito del cuore. Nel primo capitolo – il più bello, per me – il capitano Carlos Alegría, ufficiale di Intendenza, sceglie il momento in cui l’esercito franchista, il suo, sta per prendere Madrid e schiacciarne o cacciarne l’ultima resistenza repubblicana, per andarsi a consegnare, prigioniero, agli sconfitti. A “quel nemico cencioso e contadino”. Non da “vinto”, insisterà con quegli sbalorditi, ma da “arreso”. Vincitore e vinto insieme, e né vincitore né vinto. Anzi: vinto dai vinti. Arreso. “Di’: Mi arrendo!” – così le furibonde lotte fra i bambini, i maschi. Ma anche lui non dice: “Mi arrendo”, dice: “Mi sono arreso!”. Non l’ha fatto di colpo, ma maturandolo via via. Ora attraversa il campo di battaglia con le mani appena alzate, quel tanto che non faccia pensare che stia implorando, si è arreso, a se stesso. “Abbandonava l’esercito che stava vincendo la guerra, e si arrendeva ai vinti, e non voleva far parte della vittoria”. Finalmente era ciò che aveva deciso di essere: il suo stesso nemico.
L’Italia, la cui storia è segnata dalla questione meridionale, fu divisa in due dall’8 settembre, fra nord e sud. E divisa in due, a nord, fra resistenti (e alleati) e repubblichini (e nazisti). C’erano da sempre due Spagne, e Antonio Machado le rese proverbiali nei pochi versi scritti nel 1937, alla vigilia della morte in esilio. Li conoscete, probabilmente, grazie a Joan Manuel Serrat che li ha messi in musica. “Ya hay un español que quiere / vivir y a vivir empieza, / entre una España que muere / y otra España que bosteza. / Españolito que vienes / al mundo te guarde Dios. / Una de las dos Españas / ha de helarte el corazón”. (C’è già uno spagnolo che vuole vivere e a vivere comincia, fra una Spagna che muore e un’altra Spagna che sbadiglia. Españolito che vieni al mondo, ti guardi Dio. Una delle due Spagne ti ghiaccerà il cuore). E c’erano le altre Spagne, quella delle persone sbigottite e spaventate dallo scatenarsi della ferocia, e quella della maggioranza silenziosa. Il quieto vivere, l’ignavia, l’opportunismo, il rancore taciuto fino al momento buono. Oggi, a confronto col mito delle due Spagne, viene il pensiero delle due Germanie, che a dividerle ebbero davvero il Muro e il filo spinato e i cani lupo e i Vopos, e che a distanza di 35 anni dal loro crollo ostentano una rivalsa arrogante (quella odiosa battuta che Andreotti rubò a Mauriac: “Amo tanto la Germania che sono contento che siano due”). Ci furono i due Vietnam, e costarono. Ci sono due Coree, e costeranno. Due Sudan. Si sta lavorando per due Ucraine. E due Europe? L’Europa ha lentamente costruito la propria identità, come si dice, sulla memoria della Shoah. Si è detto che il secolo XX sia stato il secolo del perdono. Questo scampolo di XXI secolo ha abolito il perdono, ne ha ripristinato la necessità e ne sta provando l’impossibilità.