Trieste, 1872 (Wiki Commons)

Piccola Posta

La Trieste di Saba, Joyce e Svevo. Le città hanno un'aria e i poeti per dirla

Adriano Sofri

Conversazioni con Mauro Covacich sulla sua Trilogia triestina. Saba e la sua città scontrosa. Joyce che imparò il triestino, non l'italiano. Di Svevo, Saba disse che poteva scrivere bene in tedesco, ma preferì scrivere male in italiano

"Circola in ogni cosa / un’aria strana, un’aria tormentosa, / l’aria natia”. Le città hanno un’aria, e i poeti per dirla. Trieste ha Saba. “Trieste ha una scontrosa / grazia”: proprio così, pensa il viaggiatore, che cercava le parole per dirlo. Pubblicata nel 1912, la poesia diceva però: “La città dove vivo ha una selvaggia grazia”. E continuava: “… che adulta serba il bello e il rozzo / d’un ragazzaccio con le mani troppo / grandi per dare un fiore”. Nel 1921 era rimasta “selvaggia”, e aveva continuato “ai miei occhi piace / come un bel ragazzaccio…”. Nel 1945 prese la forma finale: scontrosa, e: “Se piace / è come un ragazzaccio aspro e vorace / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore; come un amore / con gelosia”. E l’ultimo verso era a sua volta passato da una “vita contemplativa” alla “mia vita / pensosa e schiva”. Alla fine, Saba dichiarò le “alcune asprezze delle precedenti versioni” qui tolte, o appianate, “con mano eccezionalmente felice”. Era successo che Saba, cinquantenne, lasciasse Trieste dedicandole un “Distacco”, chiamandola “mia città così aspra e maliosa”, e poi: “La tua scontrosa grazia saluterò”. Gli parve che alla grazia di Trieste si addicesse meglio l’aggettivo “scontrosa”, e lo recupererò, e ora faremmo fatica a rassegnarci all’originario “selvaggia” – troppo, per la città, e anche per il suo selvatico Carso. 


Domenica parlavo con Mauro Covacich della sua “Trilogia triestina. Svevo Joyce Saba” (La nave di Teseo): sono i testi di tre puntate al Politeama Rossetti, e rivendicano a Trieste i suoi tre maggiori – “Tre corone”, fiorentine, furono presto dichiarati Dante Petrarca e Boccaccio, e poi, dal 1945 in poi, per qualche decennio, Carducci-Pascoli-D’Annunzio in un’antologia scolastica Mondadori. Di Joyce triestino Covacich ricorda l’esilarante lettera spedita da Parigi a Svevo, per chiedergli di recuperare delle sue carte e fargliele recapitare: “Dunque, caro Signor Schmitz, se ghe xe qualche d’un de Sua famiglia che viaggia per ste parti la mi faria un regalo portando nel fagotto che non xe pesante gnianche per un omo poiché, La mi capisse ze pien de carte che mi go scritto pulido, co la penna e qualche volta anche col ‘bleistiff’ quando no iera la pena. Ma ocio a no sbregar el lastico /occhio a non rompere l’elastico/, poiché allora nasarà confusion fra le carte”… Il prodigioso Joyce ha imparato il triestino, non l’italiano. E il suo allievo d’inglese, il Signor Schmitz, Italo Svevo, ebreo, padre tedesco, che parla in triestino e, dice Saba, “poteva scrivere bene in tedesco, preferì scrivere male in italiano”. Covacich ha un cognome sloveno, ha parlato triestino, scrive bene in italiano, sta a Roma così può tornare a Trieste, fa sul serio con la letteratura. Nel recente corpo a corpo con Kafka (2024, per la stessa editrice) prova ad ascoltare fino in fondo la famosa raccomandazione di K ventenne: “un libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi”. Kafka, ebreo boemo scrive nel tedesco non suo, e da allora bisogna fare i conti col suo tedesco. 


Giornata di coincidenze, domenica. Nella nostra conversazione è intervenuto un frequentatore di quella Trieste, di Anita Pittoni e di Giotti e Stuparich… Di mattina era uscita una rigogliosa intervista di Cazzullo a Claudio Magris, nella quale il professore aveva fatto scivolare un giudizio che sarà suonato alla compagnia dei joyciani ingiurioso quanto a me l’attentato a Ventotene: “Io ho letto prima Victor Hugo di Scipio Slataper o di Italo Svevo. Anche se poi mi sono reso conto che Svevo è grandissimo. Al confronto, Joyce è un autore di serie B”. (In passato era stato meno drastico: “Per molti versi non è certo meno grande di Joyce”). Magris può, e vale la pena di pensarci. Ricorda di nuovo la “grandiosa” mezza pagina di Svevo – l’ultima, secondo Maier: il vecchio che a mezzanotte ride del diavolo commesso viaggiatore senza clienti. (Oggi, è l’ultima pagina di Zeno che torna a imporsi: “L’occhialuto uomo inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. /…/ Sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.


Ne “La città interiore” (2017) Covacich racconta un proprio azzardato esame con Magris. Lui conta sul corso monografico, Magris gli rivolge la prima lunga domanda in tedesco. “Al mio primo farfugliare nella lingua di Goethe, il professore mi ha guardato e, creando con le sue stesse parole, italiane, uno scarto di dimensione tale da offrirmi una via d’uscita in una specie di universo parallelo, ha detto: Adesso chiudo gli occhi e lei sarà stato solo un sogno”. Magnifico. Mi sono ricordato di Kafka a casa Brod che senza volere sveglia il padre di Max addormentato sul divano e gli dice: “Mi consideri un sogno”. Magris: “La considero un sogno”. 
(L’intervista ha poi avuto un’appendice in cui il Caffè Libreria San Marco ha confermato all’intervistatore come bisogni essere cauti con lo spirito triestino, e specialmente con un personaggio così squisitamente sveviano come una giovane cameriera). 


Non abbiamo avuto il tempo di misurarci sulla gallina. La gallina è una figura cruciale nella poesia di Saba. Covacich racconta Saba che, aspettando Lina andata a fare la spesa, scrive di getto “A mia moglie”, le dà della pollastra, della giovenca, della cagna, della coniglia. Lei rientra, lui entusiasta gliela legge, lei, tutta piena di pacchi e pacchetti, non la prende benissimo… Lui non rinuncerà mai: scriverà, tardi, “Povera, vecchia e stanca, gallina”. A differenza di Saba, e di me, Covacich ha una ripugnanza per le galline e gli uccelli in genere - fra un pollaio e una gabbia di leoni, entrerebbe nella seconda. Nello spettacolo ha messo La gallina di Cochi-Renato-Jannacci, che “non è un animale intelligente”. Di sé, delle sue poesie, Saba scrisse: “Il buon Carletto / Cerne, l’amico e collaboratore e poi erede della Libreria/ mi diceva: ’Vedo / che proprio deve farle’. Devo come / La gallina fa l’uovo. Questo un giorno / me lo disse mia figlia /…/ Immaginava / suo padre in una gabbia”. Un altro grande, Mario Lavagetto, dedicò una lettura psicanalitica a “La gallina di Saba”, il suo animale sacro. Sull’altra sponda c’è un verso dell’inno a Oberdan – Saba era nel grembo materno quando Guglielmo Oberdan fu impiccato: “Morte a Franz, viva Oberdan! / Vogliamo formare una lapide / di pietra garibaldina; / a morte l’austriaca gallina, / noi vogliamo la libertà”. Così l’aquila bicipite. Oggi, l’Amministrazione Trump si è appellata al Veneto per l’importazione delle uova. 

 

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