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Piccola Posta
Migranti e operai, la guerra fra ultimi e penultimi al tempo delle deportazioni
La questione non è se la classe operaia esista o no, bensì se si comporti come se esistesse. Per alcuni anni gli operai l'hanno fatto, per poi tornare a essere solo operai e operai soli. Forse non c'era niente da fare, o forse moltissimo
Francesco disadorno che fa un giretto con gli accompagnatori in maniche di camicia mette allegria. C’è un momento per i reali del Regno Unito e uno per un ragazzino americano e le tombe dei predecessori. Nella filastrocca patriottica di Renato Simoni, musicata da E. A. Mario, Pio X, il beniamino di Francesco, che morì neanche un mese dopo lo scoppio della Grande Guerra, scende dal cielo al suo Piave: “Son Papa Sarto da un pezzo son morto /… La me perdona, Signora, se vegno / a presentarme cussì a la Madona… / Anca sta sera go fato un zireto, / me son stracà che l’età non perdona. / Go dito: andémo a sentarse un pocheto / e a far do ciacole co la Madona!”.
Di universalismo cristiano insidiato scriveva ieri Sergio Belardinelli, che è un fervido credente. Gli eredi dell’idea che non possiamo non dirci cristiani – non essendo, cioè, credenti – guardano con apprensione alla penuria di cristiani credenti, per non dire praticanti. L’aveva scritto, Croce, nel 1942, “in questa terribile guerra mondiale”. Il cristianesimo dei non credenti non può ridursi al simulacro o alla memoria, ha bisogno di fedeli, come l’edera ha bisogno di un sostegno sul quale arrampicarsi. Senza, il cristiano morale si arrampica sugli specchi. Gli eredi del cristianesimo disincarnato leggono le statistiche e sentono franarsi il terreno sotto i piedi, come i giovani che leggono le statistiche sulla natalità e la longevità e la serrata ai migranti, e sentono mancarsi la pensione. Che la scomparsa dei cristiani che dicono le preghiere lasci il posto a una morale cristiana universale è un’utopia. Vengono, plebiscitati, cristiani bisunti, la santa Russia, la grande America, paradisi di trilioni e all’inferno le pensioni.
Tanti anni fa, più di venticinque ormai, quando mi fu chiaro che “il problema dell’immigrazione” (e non le persone migranti, con le quali convivevo, dunque sapevo che erano e sono altra cosa) avrebbe rotto gli argini tramutando la lotta di classe in una guerriglia fra gli ultimi e i penultimi, mi reinterrogai sull’espressione: Beati gli ultimi. Ci sono tornato in un confronto postumo bresciano fra LC e CL, e ci torno qui. Copio, ma da me. L’espressione si ricorda completata, “Beati gli ultimi perché saranno i primi”, e si immagina che sia una delle Beatitudini. Non lo è, non sta nel Discorso della Montagna. Vi figurano altrettanti annunci di un manifesto di rivoluzione sociale, promesse di riscatto e avvisi di castigo – beati i poveri e guai a voi, i ricchi; beati quelli che hanno fame, e guai a voi che ora siete sazi; beati quelli che ora piangono, e guai a voi che ora ridete… Ma quella dei primi e degli ultimi non c’è. C’è nel Vangelo di Marco, con l’avviso secco: “Ora molti dei primi saranno ultimi, e gli ultimi primi”, echeggiato in Matteo e Luca. L’assimilazione alle Beatitudini priva l’espressione del suo sorprendente contesto, che è quello di una questione di principio sorta su una vertenza sindacale. Succede nella parabola del padrone della vigna. Il quale si alza presto per assumere gli operai, si accorda con loro per un denaro al giorno, e loro vanno al lavoro. Più tardi, all’ora terza, trova in giro altri operai sfaccendati e assume anche loro: “Andate anche voi nella vigna, vi darò quello che è giusto”. E fa la stessa cosa all’ora sesta e alla nona. All’undicesima ora c’è ancora nella piazza qualche operaio in ozio. “Nessuno ci ha presi a giornata”, gli dicono, e lui manda anche loro alla vigna. Scesa la sera, dà ordine al fattore di pagare gli operai, “cominciando dagli ultimi fino ai primi”. Quelli dell’undicesima ora ricevono un denaro a testa. E così gli altri, fino ai primi, che ricevono tutti il loro denaro pattuito. Ma a questo punto i primi se la prendono col padrone: “Questi qui, gli ultimi, hanno lavorato soltanto un’ora, e tu li hai fatti pari a noi che abbiamo sopportato la fatica della giornata e la calura”. Il padrone replica: “Io non vi faccio torto. Non eravamo d’accordo per un denaro? Prendete dunque quello che vi spetta e andatevene. Io voglio dare a questi ultimi come a voi. Forse che non posso disporre come voglio del mio denaro? Oppure il tuo occhio è maligno perché io sono buono? Così gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi”.
C’è da restare sconcertati. Il comportamento del datore di lavoro è così stravagante da far sospettare che più che un uomo buono sia un padrone capriccioso. Di fatto l’egualitarismo estremista che esibisce contraddice tutti i discorsi sul merito e sugli incentivi, e ricorda, commemora, il vilipeso Sessantotto del rifiuto di qualifiche e categorie e degli aumenti uguali per tutti. Certe parabole andrebbero prima di tutto prese alla lettera, così questa: gli ascoltatori contemporanei dovevano sapere bene quanto si faticasse in una vigna e quanto valesse il salario di una giornata. Dunque i primi e ultimi, qui, non sono i ricchi e i poveri, i sazi e gli affamati, ma operai gli uni e gli altri, differenti solo per il caso che li ha portati a gironzolare nella piazza del caporalato a ore diverse. Sono primi e ultimi solo in ordine di tempo, sono i primi e gli ultimi arrivati. In questa specie di comunismo dall’alto (dall’altissimo, del Regno dei cieli e del suo Signore) a tutti viene dato secondo i loro bisogni. Gli ultimi arrivati diventano i primi solo nella fila per la busta paga, e non c’è alcuna sovversione della gerarchia sociale. Dai nostri giorni, la parabola inscena il malumore degli operai che hanno lavorato tutto il giorno contro gli operai che hanno lavorato di meno, e alcuni addirittura solo per un’ora. Il padrone non ha mancato all’accordo sindacale, per così dire, ma ha tradito ai loro occhi la giustizia comparativa.
La situazione ricorda quella così drammatica del figlio obbediente che si vede preferire platealmente, abbracci e baci, il vestito e l’anello, e il vitello grasso, il fratello prodigo, che ha sputtanato l’eredità ed è tornato come un barbone. Per la vigna è un conflitto fra compagni di lavoro, per la casa del padre fra fratelli. Infatti la suscettibilità esasperata del rapporto fra penultimi e ultimi sta nella prossimità, mentre primi e ultimi stanno ai capi opposti della scala sociale, in cima e in fondo. A metterli in fila, basta un dietrofront, una figura di ballo, a rovesciare la situazione e instaurare il paradiso in terra (o il Regno dei cieli), come le rivoluzioni hanno creduto di fare. Penultimi e ultimi si stanno invece addosso, si urtano in una perenne ora di punta. I migranti, i nuovi arrivati, sono in realtà gli ultimi arrivati. E non sono solo operai, sono operai e stranieri, per giunta senza diritti, senza polpastrelli, senza nome, senza voto. Gli Ultimi. Il loro arrivo ha detronizzato gli ultimi di ceppo, li ha privati definitivamente della promessa che spettava loro, ha invaso non il paese ma la loro borgata, ha minato il diritto di anzianità. Li ha resi Penultimi. “La sinistra va solo dietro ai gay, agli zingari e agli immigrati”. “La sinistra si è barricata nella Ztl”. I penultimi non sono dannati solo a una nuova povertà, ma a un’intimità che li offende, che li viola.
La vera questione non era se la classe operaia esista o no, bensì se si comporti come se esistesse, e per alcuni anni gli operai italiani ed europei si comportarono come se esistesse, e non temettero la vicinanza o addirittura la mescolanza con le puttane i preti e gli esattori delle tasse. Poi, a carte truccate, tornarono a essere solo operai e operai soli. Non giocavano più col mappamondo, e il mondo girava al contrario. I poveri diventavano poverissimi, i ricchi ricchissimi. “La lotta di classe esiste, e l’abbiamo vinta noi!”, proclamò il più spiritoso di loro, e ha continuato a incassare anche in tempo di dazi. I salari italiani sono tatuati sulla schiena dei lavoratori. Forse non c’era niente da fare, se non tenere il proprio dito nella fessura della diga che crollava. Forse c’era moltissimo da fare, a cominciare dal prendere sul serio il luogo comune secondo cui i migranti sono una risorsa. Ora i titolari delle democrazie europee stringono i freni sui migranti sperando di dilazionare la tracimazione di chi vuole la piazza pulita. Tardi, naturalmente. E’ tempo di deportazioni. Non è mai troppo tardi, naturalmente.



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