Un Pannella d'annata (1973) attacca il fascismo dell'antifascismo
Il 20 dicembre 2003, Adriano Sofri nella sua “Piccola posta”, a proposito della discussione sull’antifascismo nella storia repubblicana, segnalava un testo di Marco Pannella di trent’anni prima, la prefazione a un libro di Andrea Valcarenghi (“A pugno chiuso”, Arcana ed.) e chiedeva al direttore del Foglio di pubblicarlo, “Io poi te lo chioserò”. Eccolo.
Carissimo Andrea, mi chiedi una “prefazione” a questo tuo libro Underground: A pugno chiuso. […] Cosa vuoi da me? Pensi davvero che il mio nome sia divenuto merce buona per il mercato di chi compra-legge, o di chi vuoi o vorresti chiamare alla lettura con questo libro? No: ne ho la prova, so che sai che non è così. Tu non leggi i miei “scritti”, le migliaia di volantini ciclostilati, di comunicati-stampa, di foglietti del Partito radicale, che sono le sole cose ch’io abbia mai prodotto, in genere scrivendole in mezz’ora, per urgenze militanti, nella bolgia di via XXIV Maggio ieri, in quella di via di Torre Argentina 18, oggi.
Tu sei un rivoluzionario. Io amo invece gli obiettori, i fuori legge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i non violenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica. Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello Stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se “rivoluzionario”. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuole essere onesti ed essere davvero capiti, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri e alle ideologie. Credo sopra a ogni cosa al dialogo, e non solo a quello “spirituale”: alle carezze, agli amplessi, alla conoscenza come a fatti non necessariamente d’evasione o individualistici – e tanto più “privati” mi appaiono, tanto più pubblici e politici, quali sono, m’ingegno che siano riconosciuti. Ma non è questa l’occasione buona per spiegare ai tuoi lettori cosa sia il Partito radicale; andiamo avanti.
Non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo. Non credo ai “viaggi” e sarà anche perché i “vecchi” ci assicurano sempre che “formano” (a loro immagine) i “giovani”: come l’esercito e la donna-scuola. Non credo al fucile: ci sono troppe splendide cose che potremmo/potremo fare anche con il “nemico” per pensare a eliminarlo. E voi di Re Nudo dite: “Tutto il potere al popolo”, “Erba e fucile”. Non mi va. Lo sai, non sono d’accordo.
Brucare, o fumare erba, non mi interessa per la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un’autostrada di nicotina e di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene. Mi par logico, certo, fumare altra erba meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla troppo cara, sul mercato, in famiglia e in società, in carcere. Mi è facile, quindi, impegnarmi senza riserve per disarmare boia e carnefici di Stato, tenutari di quel casino che chiamano “l’Ordine”, i quali per vivere e sentirsi vivi hanno bisogno di comandare, proteggere, obbedire, torturare, arrestare, assolvere o ammazzare, e tentano l’impossibile operazione di trasferire i loro demoni interni (di impotenti, di repressi, di frustrati) nel corpo di chi ritengono diverso da loro e che, qualche volta (per fortuna!), lo è davvero. Ma fare dell’erba un segno positivo e definitivo di raccordo e speranza comuni mi par poco e sbagliato. Né basta, penso, aggiungervi come puntello il vostro “fucile”.
La violenza dell’oppresso, certo, mi pare morale: la controviolenza “rivoluzionaria”, l’odio (“maschio” o sartrianamente torbido che sia) dello sfruttato sono profondamente naturali, o tali, almeno, m’appaiono. Ma di morale non mi occupo, se non per difendere la concreta moralità di ciascuno, o il suo diritto ad affermarsi finché non si traduca in violenza contro altri: e quanto alla natura penso che compito della persona, dell’umano, sia non tanto quello di contemplarla o di descriverla, quanto di trasformarla secondo le proprie speranze. Insomma, quel che vive, quel che è nuovo, è sempre, in qualche misura, naturale.
Perciò non m’interessa molto che la violenza rivoluzionaria, il vostro fucile, siano probabilmente morali e naturali, mentre mi riguarda profondamente il fatto che siano armi suicide per chi speri ragionevolmente di poter edificare una società (un po’ più) libertaria, di prefigurarla rivoluzionando se stesso, i propri meccanismi, il proprio ambiente e senza usare mezzi, metodi, idee che rafforzano le ragioni stesse dell’avversario, la validità delle sue proposte politiche, per il mero piacere di abbatterlo, distruggerlo o possederlo nella sua fisicità.
La violenza è il campo privilegiato sul quale ogni minoranza al potere tenta di spostare la lotta degli sfruttati e della gente: ed è l’unico campo in cui può ragionevolmente sperare d’essere a lungo vincente. Alla lunga, ogni fucile è nero, come ogni esercito e ogni altra istituzionalizzazione della violenza contro chiunque la si eserciti, o si dichiari di volerla usare. Se la lotta rivoluzionaria presupponesse davvero necessariamente la morte di compagni, il loro “sacrificio” e, questa esemplarità, la “presa” del potere: e a potere preso, o nelle more della conquista, il ripetere contro i nemici i gesti per i quali io sono loro nemico, gesti di violenza, di tortura, di discriminazione, di disprezzo, consideratemi pure un controrivoluzionario, o un piccolo borghese da buttare via alla prima occasione.
Non sono, infatti, d’accordo. L’etica del sacrificio, della lotta eroica, della catarsi violenta, mi ha semplicemente rotto le balle: come al “buon padre di famiglia”, al compagno chiedo una cosa prima di ogni altra: di vivere e d’essere felice. Penso, personalmente, che avendo un certo bagaglio di speranze, di idee e di chiarezza, non solo questo sia possibile, ma che non vi sia altro modo per creare e vivere davvero la felicità. Ma esser “compagno” (come esser padre) non è scritto nel destino né prescritto dal medico. Se le vie divergono, lo constateremo e cercheremo di comprendere meglio. Ma basta con questa sinistra grande solo nei funerali, nelle commemorazioni, nelle proteste, nelle celebrazioni: tutta roba anche questa nera; basta con questa “rivoluzione” clausevitziana, con le sue tattiche e strategie, avanguardie e retroguardie, guerre di popolo e guerre contro il popolo, di violenza purificatrice e necessaria, di necessarie medaglie d’oro: la rivoluzione fucilocentrica o fucilocratica, o anche solo pugnocentrica o pugnocratica, non è altro che il sistema che si reincarna e prosegue. Non solo il “Re”, ma anche questa “Rivoluzione” vestita di potere e di violenza è nuda, Andrea. Tollera che io lo scriva nel tuo libro, se questa lettera sarà accolta come una prefazione.
E tollera molto altro… Siete, sei “antifascista”, antifascista della linea Parri-Sofri, lungo la quale si snoda da vent’anni la litania della gente-bene della nostra politica. Noi non lo siamo. Quando vedo nell’ultimo numero di Re Nudo, ultima pagina, il “recupero” di un’Unità del 1943 in cui si invitava ad ammazzare il fascista, dovunque capiti e lo si possa pescare, perché “bisogna estirpare le radici del male”, ho voglia di darti dell’imbecille. Poi penso che tutti sono d’accordo con te, tranne noi radicali, e sto zitto, se non mi costringi, come ora, a parlare o scrivere. Capisco le vostre ragioni: anche voi dovete dimostrare (a voi stessi?) che il Pci è oggi degenerato; che ieri era meglio di oggi; che quando aveva armi e potere rivoluzionario era più maschio, più coraggioso, più duro e puro. Invece (come Partito, qui non parliamo dei “comunisti”) era, semmai, peggio: perfino molto peggio d’oggi. Comunque non era migliore solo perché teorizzava qua e là l’assassinio politico e popolare come atto d’igiene e di garanzia contro “il male”. Per chi l’ha ammazzato, certamente, Trotzky era peggio e più schifoso di un fascista, e ancora più profonda radice del male. Ma, per voi che riesumate, a onta dell’Unità di oggi, quella di ieri, credendo di legarvi così alle tradizioni di classe, popolari, operaie, non c’era davvero nulla di meglio da recuperare che questi concetti controriformistici, barbari, totalitari, contro “le radici del male”?
Tu che hai “compreso”, ti sei sentito compagno di Notarnicola (e hai fatto bene); che hai vissuto almeno quanto me fra sottoproletari, paria, emarginati, come puoi non comprendere il fascismo di questo antifascismo? Come puoi, ancora, sopportare l’inadeguatezza dell’ingiuria, dell’insulto, del disprezzo, del manicheismo dozzinale, classista, non laico, fariseo, nello scontro di classe che cerchiamo di vivere e di sostenere, nel vivere diverso e nuovo che presuppone e che genera? Perché anche tu, tra fucile, antifascismo e poteri-al-popolo-a-pugno-chiuso, continui a vivere di quella vecchia nuova-sinistra che così puntualmente ed efficacemente denunci nel libro?
Come noi radicali, voi renudisti sostenete che non esistono dei “perversi” ma dei “diversi”. Nelle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche o negli uffici perfino i torturatori sono anch’essi, in primo luogo e generalmente, vittime. Tranne che per certi psicanalisti, uccidere il padre non è la soluzione, non aiuta a superare l’istituzione, la famiglia; o non basta, e non è comunque necessario.
Sosteniamo, insieme, che non esistono nelle carceri, negli ospedali, nei manicomi, nelle strade, sui marciapiedi, nei tuguri, nelle bidonville, dei “peggiori” ma, anche lì, dei “diversi”, malgrado la miseria (che è terribile proprio perché ammazza, degrada, muta, fa degenerare: e se no, perché la combatteremmo tanto?), malgrado il lavoro che aliena (che rende “pazzi”), malgrado lo sfruttamento classista sia “secolare”, quindi incida sull’ereditarietà. Sognamo – e v’è vigore e responsabilità nei nostri sogni – una società senza violenza e aggressività o in cui, almeno, deperiscano anziché ingigantirsi e esservi prodotte. Sosteniamo che è morale quel che tale appare a ciascuno. Lottiamo contro una “giustizia” istituzionale (e “popolare”) che ovunque scambia diversità per perversione, dissenso per peccato.
Come possiamo, allora, recuperare proprio in politica, nella vita di ogni giorno nella città, il concetto di “male”, di “demonio”, di “perversione”? Quel che voi chiamate “fascista”, si chiama “obiettore di coscienza”, “divorzista”, “abortista”, “corruttore radicale”, “depravato”, per altri. La “stella gialla” dei ghetti è un emblema terribile; ma non meno per chi l’impone che per chi l’indossa. […] In tutta questa vostra storia antifascista non so dove sia il guasto maggiore: se nel recupero e nella maledizione di una cultura violenta, antilaica, clericale, classista, terroristica e barbara per cui l’avversario deve essere ucciso o esorcizzato come il demonio, come incarnazione del male; o se nell’indiretto, immenso servizio pratico che rende allo Stato d’oggi e ai suoi padroni, scaricando sui loro sicari e su altre loro vittime la forza libertaria, democratica, alternativa e socialista dell’antifascismo vero.
Il fascismo è cosa più grave, seria e importante, con cui non di rado abbiamo un rapporto di intimità. Altro che roba da “vietare” con la “Legge Scelba” (serve a “sciogliere” la Dc?), da reprimere con qualche denuncia e qualche carabiniere, per legittimarne meglio la funzione antioperaia, o da linciare a furor di popolo – antifascista! Il rapporto tra fascismo-capitalismo e sinistra è complesso, allarmante, incombente, presente, ambiguo, da oltre cinquant’anni, 1973 compreso. […] Ma basta. Se tutto quello su cui sono andato scrivendo finora ci divide, Andrea, nulla di ciò è essenziale nel tuo libro, o nell’esistenza che vi si affaccia e si esprime, e che conosco… Tu a Milano, noi altrove, abbiamo dovuto e forse saputo, ogni giorno per anni quanto lunghi, inventar tutto, rifiutare ogni strumento esistente, ogni scorciatoia, ogni facilità, per poter avanzare almeno di un poco […] La fantasia è stata una necessità, quasi una condanna, piuttosto che una scelta: sembrava condannarci a essere soli, voi lì, noi ancora più sparsi e con più fronti addosso. Così abbiamo parlato come abbiamo potuto, con i piedi, nelle marce, con i sederi, nei “sit-in”, con gli “happening” e “azioni dirette” di pochi, in carcere o in tribunale, con musica o con comizi, ogni volta rischiando tutto, controcorrente, sapendo che un solo momento di sosta ci avrebbe portato indietro di ore di nuoto difficile, troppo spesso considerati “diversi” dai compagni e colmi invece d’attenzioni continue, di provocazioni, di colpi da parte dei pula e non dei minori.
Abbiamo durato, rifiutando di sopravvivere, ricominciando sempre, facendo anche delle sconfitte materia buona per dar volto e corpo alle nostre testarde, e alla fine semplici e antiche, speranze. Noi abbiamo colto qui qualche successo che ora tutti riconoscono. Tu anche, ma eri più solo. Questo, nel libro, non riesci a ignorarlo, o nasconderlo. Ho sempre pensato a te come a un compagno impegnato in un’opera comune, in lotte necessariamente convergenti e da organizzarsi insieme. Tu no, è questa la differenza. Quando accettai, e tenni a lungo, la “direzione responsabile” di Re Nudo, fra decine d’altre, non era per abitudine, o con indifferenza. Non eri un nome in più, un ennesimo compagno d’un’ora o d’una occasione […] Le battaglie per i diritti civili sono mancate a tutto il Movimento: un inconsapevole razzismo di generazione, un rifiuto di “politica” (quella senza kappa), un po’ da struzzi, in proposito, un rozzo paleo marxismo (in moltissimi, non in te), un’indifferenza che era cecità dinanzi a concreti scontri di classe e libertari, hanno fatto strage soprattutto a Milano. […]
Continueremo ancora a lungo a marciare divisi? Segnali, ogni tanto, le nostre vittorie – anche se tendi involontariamente a sminuirle, facendole mie, individuali e non, come sono, di quel collettivo felice e raro che è il Partito radicale. Oggi, con la battaglia che abbiamo iniziato per i dieci referendum abrogativi di tutto il merdaio legislativo del regime, lo scontro diventa agli occhi di tutti, per molti mesi, generale e conclusivo. Ancora una volta, ti sarà concretamente estraneo? Non mi pare possibile né accettabile. Il tuo è il libro di un prezioso Gavroche della nostra contestazione, di una generazione politica che è forse l’unica a non essere ancora interamente battuta dal regime della Dc (già Pnf) e dell’introvabile sua opposizione. […]
Consiglierei piuttosto di leggerlo ai genitori-disperati per i figli-persi e contestatori; ai progressisti-bene in mal di politica dei redditi e di programmazione, sconvolti e indignati di non essere divenuti i vostri idoli; a quanti si meravigliano e scandalizzano nel vedere le rare sedi del prestigioso partito dei Pannunzio e dei Carandini, dei Benedetti e dei Piccardi, divenute il ritrovo e il covo di bande sottoproletarie e capellute, di studenti in rivolta e comunisti, di anarchici e trotzkisti, prima ancora di riempirsi di fuori legge del matrimonio e di obiettori di coscienza, di femministe e di omosessuali, di “freaks” e di abortisti, di veri credenti e di vegetariani e nudisti, di “avanzi di galera” d’ogni genere. Capirebbero finalmente qualcosa di se stessi, oltre che di voi, di noi. E le loro facce ne diverrebbero meno peste e bolse. […]
di Marco Pannella