Il romanzo di Bobo Maroni /2
Come fu che dalla lottizzazione di Lozza apparve Bossi come un santone
La seconda puntata del feuilleton fogliante sulla vita e le opere di Roberto Maroni
Roberto Maroni prende il treno Varese-Milano in un giorno dell’estate ’74, dopo la maturità, per andarsi a informare sulla facoltà di Filosofia. Non pensa che sarà un altro treno, nell’estate 2011, a fargli pronunciare, da ministro dell’Interno, una frase di pura filosofia pragmatica: cari No Tav in rivolta, la Tav si fa, altrimenti diciamo addio ai milioni della Ue.
Sul Varese-Milano, comunque, nel ’74 fa un caldo bestia. Poi scendi e l’università è chiusa per sciopero. Poi un gruppo di ex compagni di liceo ti parla male di Filosofia – che cosa ci fai? E tu che, sulle prime, quello pensavi di fare, Filosofia (puntando al giornalismo), cambi idea e vai a Giurisprudenza. Forse ti sei detto: lavoro sicuro. Forse è per questo che il giorno della laurea ti prende un colpo: e ora che faccio?
“So che lo vedono già capo del governo…”. Questo disse di Maroni, nel ’94, Sergio Lovisolo, suo ex professore e suo ex collega a Radio Varese. Ci sono voluti quindici anni – Pontida 2011 – perché i militanti leghisti esplicitassero il concetto con lo striscione “Maroni premier”. Chissà se Lovisolo ci credeva che era stato il caso – perché Maroni dice di crederci, al caso – a far prendere al suo ex alunno la strada della politica.
Si dà il caso, però, che a fine anni Settanta, mentre il giovane Maroni si affaccia sul mondo del lavoro (uffici legali di banche, perlopiù) un vicino di casa della famiglia Maroni a Lozza, in provincia di Varese, sia un impiegato di nome Andrea Brianza.
Uno che con Umberto Maroni, padre di Roberto e funzionario del Credito Varesino, parla di orto, mobili e istanze locali. Il sindaco di Lozza vuole lottizzare Lozza, dice Brianza a Maroni senior. Il sindaco di Varese vuole dare una concessione edilizia al confine con Lozza. Brianza scrive una lettera alla Prealpina. Umberto Bossi, ancora semisconosciuto, la legge e si presenta alla sua porta con un fiume di parole tra cui spiccano i concetti “picchetto a Malpensa” e “scritte sui muri”. Questa volta Roberto Maroni non c’è, ma due anni dopo sarà lui ad aspettare in macchina Bossi mentre Bossi scrive sui muri “Padania” – peccato per la Panda nuova della mamma di Maroni (capita che nel trambusto della fuga un barattolo di vernice si rovesci sul tappetino). Un amico di quei giorni, in ogni caso, dice che fu Maroni senior, e non Maroni junior, a scrivere i dieci comandamenti del primo programma bossiano con Brianza.
La seconda volta che Brianza vede Bossi – a Capolago, nel 1979 – si presenta con il giovane Maroni e con la fidanzata di questo, Emi. “Eravamo tutti stregati da questa grande personalità più che dal progetto”, scriverà poi Maroni nella postfazione al libro “Il grande camaleonte” di Giovanna Pajetta. “Era una sorta di santone indiano…”. A Carlo Zanzi, autore di “Maroni l’arciere”, Maroni, nel ’94, racconta invece che il Bossi delle origini illustrava i concetti difficili con le immagini. E che quelle immagini gli facevano venire in mente un paragone “irriverente” con le “parabole di Cristo” – “Irriverente per chi?”, chiede Zanzi. “Per Bossi, ovvio”, risponde Maroni. La fascinazione per Bossi si traduce in soldi per pagare i debiti (di Bossi): Bobo si mette a cercare fondi per la Scedno, Società cooperativa editoriale del Nordovest, con l’intento di collaborare alla rivista Nordovest. E così passa dal primo Umberto (suo padre) al secondo Umberto (Bossi), non tanto perché già sensibile alle tematiche padane, quanto perché allettato dalla vecchia prospettiva di fare il giornalista.