Il romanzo di Bobo Maroni /3
Così il Maroni cooptato mandò in bestia la vecchia guardia (prima volta)
La terza puntata del feuilleton fogliante sulla vita e le opere di Roberto Maroni
Roberto Maroni non crede nel destino. E allora non sarà colpa del destino ma della nemesi se il Maroni che nel 2011 si è messo di traverso alla riconferma del bossiano capogruppo alla Camera, Marco Reguzzoni, si trova nella posizione di chi, nel 1989, criticava l’ascesa per bossiana cooptazione del Maroni medesimo. E’ andata così: che Bobo, nell’81, dopo un paio di stagioni dietro al Bossi degli albori, non ne poteva più. Il Bobo aveva trovato un posto in banca noioso e dignitoso, roba che alle quattro del pomeriggio stacchi e vai a giocare a tresette, e alle sei ti fai un gin tonic (meglio il baretto “degli ambienti tipo Arcore”, dirà poi), e alle otto hai le prove con il gruppo – organo Hammond da dilettante di livello, e va bene che i musicisti veri odiano i musicisti da dopolavoro, ma anche Woody Allen suona il jazz, e Bobo Maroni può a buon diritto inorgoglirsi per il concerto dei suoi “Distretto 51” al Porretta Soul Festival, nel 2006. Un successone, pare, reso ancor più glorioso dal fatto che ci si trovava in terra politicamente nemica (l’Emilia rossa).
E’ andata insomma che Maroni, nell’82, di Bossi se ne infischiava, preso com’era dalla serena vita di provincia con gli amici di sempre, quelli con le casette con giardino tutte uguali, un po’ “American Beauty” e un po’ baldanza di chi con i primi soldi si fa la tavernetta. E però sotto c’era quell’inquietudine. Emi, la moglie di Maroni, laurea alla Bocconi e impiego in un’industria di aerei militari, in un’intervista descriverà poi il marito come uomo di luci e ombre, ambizione e idealismo, grande generosità e parziale eclissi (dalla vita familiare, una volta fatto il salto verso la politica). Inquieto, l’avvocato Maroni passa dunque dal Banco Ambrosiano alla Banca del Monte, schivando la routine che per altro verso lo rilassa.
Fosse vissuto senza politica, Maroni avrebbe chiamato grande occasione quella dell’84: contratto alla Avon, vendita di profumi e creme porta a porta. Qualifica di responsabile legale, possibilità di carriera, balzo subitaneo a dirigente. Eppure la depressione si affaccia, e meno male che nasce la figlia di Bobo, dirà poi Bobo, altrimenti chissà. “Vendendo antirughe ho imparato la politica”, ha detto Maroni nel 2007 a Grazia. Alla Avon bisognava negoziare, sbrogliare rogne, far capire al marketing che pubblicizzare la crema che fa sparire le rughe dall’interno è roba da casa farmaceutica e non cosmetica. Tornerà utile quando il Maroni deputato si troverà a dover spiegare Bossi agli alleati (dialogando intanto con gli avversari). “Voleva fare il ministro degli Esteri per la sua capacità di intessere rapporti”, racconta chi lo conosce. Si ritrovò invece all’Interno, ministero granitico da sempre in mano alla Dc.
Ai tempi della Avon, però, Bobo si vede soltanto come un ultratrentenne già arrivato e già finito. Non sa che la politica è ancora lì che lo aspetta, sotto forma di manifesto di Umberto Bossi. Maroni lo vede sfrecciando in macchina in una sera dell’ottobre ’89. C’è un comizio, quasi quasi ci vado. Va e Bossi, che ogni tanto ancora lo chiama per un’informale consulenza, lo invita a mangiare una pizza. Poi gli dice: vieni al congresso a Milanofiori. Maroni si presenta senza tessera tra un Giuseppe Leoni e un Lorenzo Banfi, Bossi capisce che a forza di chiedergli consigli legali lo sta riaccalappiando, tanto che lo presenta come “giovane avvocato di Varese” alla vecchia guardia già insospettita. Tempo un mese, e lo impone come segretario provinciale di Varese alla vecchia guardia già inferocita. Maroni in seguito ricorderà le parole di Bossi in quell’occasione: o lo eleggete o ve lo ritrovate commissario. Si inalberano tutti. Bobo butta lì un furbissimo “votate sì o no a scrutinio segreto”. Arriva una valanga di sì sulla fiducia (a Bossi, naturalmente). Per il Maroni cooptato significa fine della carriera in Avon e inizio di quella che Marco Formentini, ex sindaco leghista di Milano, interpellato in proposito dal Foglio, chiama la “maroneide”: una fulminea ascesa in quattro anni (dal ’90 al ’94) e in quattro passi, dalla segreteria provinciale della Lega al comune di Varese, dal comune al Parlamento, dal Parlamento al ministero (e alla vicepresidenza del Consiglio).