Il romanzo di Bobo Maroni / 10
Il corpo malato del capo e quella Pontida fatale sfilata di mano a Maroni
Bossi, in coma per più di un mese, lentamente risorgerà. Il corpo del capo è nascosto non si sa dove. L’ha deciso Manuela, la moglie. E la custodia del corpo del capo diventa presto catena umana, forte e invisibile, non si chiama “cerchio magico” ma presto lo diventerà
Leggenda vuole che Umberto Bossi, come i capi indiani, sappia ascoltare le vibrazioni della terra. Oggi, 2011, l’orecchio a terra si traduce in levata di scudi contro il rifinanziamento delle missioni militari all’estero. C’è stato il flop elettorale, pensa Bossi. C’è il ricasco negativo della missione in Libia in termini di profughi, pensa Roberto Maroni. Anche se poi abbraccia La Russa, e la Lega vota. Nel 2004, l’orecchio a terra faceva dire a Bossi “riforme o morte” (del governo Berlusconi). C’era la disaffezione della Padania per la Lega romanizzata e un anno elettorale in cui cancellare il rovinoso tre per cento del 2001.
Bobo Maroni nel 2004 è al Welfare, e non sembra interessato a fare lo sfasciacarrozze. Poi arriva l’undici marzo. Maledetto come l’undici settembre. Madrid si sveglia con dieci zaini esplosivi nel metrò, Milano va a dormire con una nevicata fuori stagione e una terribile notizia: Umberto Bossi è caduto a terra. Ictus. Bobo Maroni si precipita all’ospedale di Varese. Con i giornalisti minimizza, con gli amici si lascia andare alle peggiori previsioni. La verità sta nel mezzo: Bossi, in coma per più di un mese, lentamente risorgerà. A fine aprile comincia a scrivere i messaggi che la Padania pubblicherà come magici pizzini: una volta si legge “dolore”, un’altra “torno presto”. Per Bobo è l’inizio di un interregno scomodo. Il capo non può parlare. Il corpo del capo è nascosto non si sa dove. L’ha deciso Manuela, la moglie di Bossi. E la custodia del corpo del capo diventa presto catena umana. Una catena diversa da quelle che i militanti improvvisano in quelle sere di fine inverno – Vespri per Bossi in un’abbazia benedettina a Pontida, con Silvio Berlusconi che arriva, ospite sgradito per via del federalismo ancora in forse sulla via del Senato.
La catena umana più forte è invisibile, non si chiama “cerchio magico” ma presto lo diventerà. Maroni non è tra chi viene ammesso al cospetto del Bossi convalescente. Saranno ammessi Rosi Mauro, Giancarlo Giorgetti, Marco Reguzzoni, Roberto Calderoli (a intermittenza). Perché Maroni no? Forse perché lo si vede come eterno frondista, un retaggio della lontana opposizione al Bossi del ribaltone. Forse, semplicemente, perché è in ascesa. Intanto a via Bellerio ci si è divisi i compiti tra colonnelli – Maroni, Calderoli, Castelli, Giorgetti e Cè. Il “direttorio”, lo chiamano. A Maroni tocca il compito di sintetizzare la rotta politica. Per continuare l’opera del capo malato, dicono i maroniani, o per prendere la scena, dicono gli antimaroniani, Maroni a fine marzo fa un discorso molto duro e molto anti Cav.: la Lega dev’essere “più ruvida, più dura, più cattiva”, dice. “Ci sarà una grande sorpresa”, aggiunge qualche giorno dopo, alludendo forse al ritorno di Bossi a Pontida, a giugno.
Fatto sta che Pontida non si farà, per volere di Bossi. “E’ la mia festa, senza di me meglio rimandare”, dice la voce del capo da una cassetta frusciante recapitata in uno scrigno a Radio Padania. Mario Borghezio si lascia andare alla fantasia: “La nostra vicenda è come una saga medievale con il re nascosto in una foresta impenetrabile e con il popolo che aspetta il suo ritorno per prendere le armi, mentre Giovanni Senzaterra mira a diventare re”. Che Maroni sia il Senzaterra oppure no, quel messaggio in cassetta apre la guerra. C’è chi ci vede una sconfessione di un Bobo straripante. Di certo c’è che a Roma, per Bobo, le giornate si fanno pesanti: aspri scambi di vedute con Alessandro Cè, aspre discussioni con Calderoli. Di certo c’è che da marzo a giugno si passa dal “tutti per uno, uno per tutti” pronunciato da Bossi poco prima della tragedia all’“uno (Maroni) contro tutti”.