Lenta deriva a Strasburgo
Perché il Ppe non sa più (o non può) difendere i valori non negoziabili
Milano. Il voto favorevole del Parlamento europeo ai due rapporti – del belga Marc Tarabella e dell’italiano (Pd) Antonio Panzeri sul diritto all’aborto e sul diritto delle coppie omosessuali al matrimonio – è stato definito “il primo voto culturale” dell’Assemblea eletta nel 2014. I numeri (441 sì e 205 no per il primo; 390 e 151 per il secondo) parlano di una netta sconfitta del fronte da sempre schierato in difesa dei ratzingeriani “valori non negoziabili”, o più genericamente dei valori tradizionali, di cui il Partito popolare europeo è sempre stato il pivot. Notizia nella notizia è infatti una spaccatura, non solo “fisiologica”, nel gruppo popolare (ne parla in dettaglio un articolo a pagina tre), e soprattutto la silenziosa rinuncia a dare battaglia su questi temi. Che cosa stia capitando al Ppe – con qualche analogia al gruppo dei Conservatori e riformatori europei di cui fanno parte i Tories, da tempo su posizioni aperturiste su tutte le frontiere eticamente sensibili – è una domanda complessa. Non basta l’ingresso nella “famiglia” cristiano-democratica nata (1976) nel solco della visione dei De Gasperi e degli Adenauer (ancora ieri Joseph Daul, presidente del Ppe, a Roma, ha usato il termine “famiglia”) di nuovi paesi e nuovi gruppi politici rispetto, poniamo, al Ppe dell’èra di Helmut Kohl, l’ultimo grande leader cattolico europeo (“sono nato cattolico-romano, voglio morire cattolico-romano”). La secolarizzazione a ritmi d’inflazione degli ultimi decenni è base sufficiente per spiegare i mutamenti anche all’interno di gruppi politici un tempo stabili, se non proprio solidi, nelle loro visioni. Il caso del ministro spagnolo Alberto Ruiz-Gallardón, dimessosi lo scorso anno dopo che il premier popolare Mariano Rajoy aveva cestinato la sua cruciale riforma sull’aborto, è emblematico.
Ma è una debolezza che parte da più lontano. Quantomeno dagli anni della Convenzione europea che ebbe il compito, tra 2001 e 2003, di preparare la strada alla Costituzione europea. A guidarla c’era Valery Giscard d’Estaing, che pure nei primi anni 90 fu nel gruppo Ppe a Strasburgo. Fu lui a decidere che i riferimenti a Dio e alla tradizione cristiana non avrebbero trovato posto nella Carta, se non in un blando accenno nel preambolo come riferimento al “patrimonio spirituale e morale”. In quell’estate del 2003, Giovanni Paolo II intervenne pubblicamente dieci volte per chiedere il riconoscimento delle “radici cristiane” dell’Europa e per denunciare “l’apostasia silenziosa da parte dell’uomo sazio, che vive come se Dio non esistesse”. Non ebbe grande fortuna, né politica né di assenso culturale. Il 2004 sarebbe stato l’anno del “caso Buttiglione”, ministro europeo bandito per aver tenuto fede alle proprie convinzioni morali. Il pensiero di Benedetto XVI sulla crisi delle culture europee è noto, il 2006 è l’anno del discorso ai delegati del Ppe: “Per quanto riguarda la chiesa cattolica, l’interesse principale dei suoi interventi nella vita pubblica si centra sulla protezione e sulla promozione della dignità della persona e per questo presta particolare attenzione ai princìpi che non sono negoziabili”. Da allora la difesa dei valori non negoziabili è stata una delle chiavi politiche del Ppe, con alterne fortune. Ma il sempre più netto congedo dall’idea illuminista dei diritti basati su una ragione universale spinge l’Europa a fondare le sue libertà sulla relativizzazione dei valori, sui diritti soggettivi e sul principio di non discriminazione. Terreni impraticabili, per la tradizionale cultura cristiano-democratica che crede all’idea di “incorporare valori e interessi cristiani e cattolici nella loro sintesi politica orientata al bene comune” (Buttiglione). Ancora nel 2013, il Ppe aveva bloccato il “rapporto Estrela” sui diritti sessuali e riproduttivi”. Solo un anno dopo, la strada si è fatta tutta in salita.