La legge dell'Italicum
Fila tutto liscio per Matteo Renzi? Il fattore C lo tiene al riparo da ogni problema e da ogni malanno parlamentare? Davvero ci aspettano mesi in cui gli unici problemi del presidente coincideranno (a proposito di fattore C) con i temibilissimi nomi di, brrr, Maurizio Landini e, doppio brrr, Matteo Salvini? Al di là dei dossier di politica economica, la vera partita che nelle prossime settimane promette di essere decisiva per Renzi è legata a una questione solo apparentemente tecnica come la legge elettorale. Evitiamo di entrare nel tecnicismo, e passiamo subito al problema politico. I fatti: l’Italicum, per diventare legge, deve essere approvato dalla Camera; per arrivare in Aula deve esserci prima l’ok della commissione Affari costituzionali; essendo la commissione figlia di un equilibrio pre-renziano, la minoranza del Pd ha i numeri per non far passare l’attuale testo; e se Renzi (come chiede la minoranza) non aumenterà le preferenze riducendo i capilista, non permetterà ai partiti non alleati al primo turno di allearsi al ballottaggio, l’Italicum non verrà votato dalla minoranza del Pd – il che significa, ovviamente, guerra atomica e nucleare. Si dirà: e dov’è il problema? Che aspetta Renzi, orfano del patto del Nazareno (patto che potrebbe rinascere in Veneto se solo Berlusconi scegliesse di fare uno sgambetto a Zaia per sculacciare Salvini), ad affidarsi alla minoranza del suo partito sulla scia del metodo Mattarella? Non è così semplice.
Cambiare anche una virgola della legge elettorale equivarrebbe a riportare l’Italicum al Senato, dove senza l’appoggio di Forza Italia i numeri per la maggioranza renziana ballano. Per questo il premier dice di non voler toccare nulla dell’Italicum e oggi immagina due strade. Entrambe di rottura. Entrambe di sfida alla minoranza. Strada uno: si riuniscono i gruppi parlamentari Pd, si sfida la minoranza, sfiduciando l’attuale capogruppo del Pd alla Camera (Roberto Speranza), si mette la legge elettorale ai voti, sapendo che i renziani hanno di un pelo la maggioranza dei gruppi e che per statuto la minoranza ha il dovere di attenersi alle decisioni della maggioranza. Oppure – ragione per cui il ministro Boschi dice che la legge deve essere approvata entro l’estate – si aspetta qualche mese, si arriva a maggio, si cambiano i componenti della commissione (dopo due anni dall’inizio della legislatura si può) e si va avanti così. Senza accordi con la minoranza, senza revisione della legge, anche a rischio di sfiorare una scissione. Ecco, appunto, ma ci sarà una scissione? Il rischio esiste perché, per quella parte del Partito democratico uscita malconcia dall’approvazione del Jobs Act, la battaglia sull’Italicum è l’ultima sulla quale ottenere il diritto di reintegro nel nuovo Pd. Ma da questo punto di vista la nascita di un soggetto a vocazione landiniana, sorta di bad company del centrosinistra dove andrebbero a confluire le anime ribelli del Pd, è un aiuto mica male (fattore C) che viene offerto al premier.
[**Video_box_2**]Ragionamento renziano: preferite fare la minoranza di un partito che potrebbe governare a lungo e forse cambiare il paese (anche con il fattore C) o preferite fare la minoranza dell’Ingroia del sindacato? Risposta facile. Renzi è dunque convinto di avere in pugno il Pd ma rischia di commettere un errore: il gruppo parlamentare del Pd non è lo specchio del Pd, e come testimonia a Venezia il caso Casson (che arriva dopo il caso De Luca, che arriva dopo il caso Calabria, che arriva dopo il caso Marche), Renzi ha dimostrato di avere in mano il Pd nazionale ma non il Pd territoriale (e le primarie in cui Renzi non vince si stanno moltiplicando). Oggi sono solo sfumature, queste, considerando anche il successo annunciato che il premier avrà alle regionali. Ma a lungo andare controllare solo il Pd nazionale e non quello territoriale potrebbe portare Renzi a ritrovarsi all’interno del suo partito con parecchi casi Tosi. E a quel punto, altro che Landini: lì sì che sarebbero guai per il Pd renziano.