Modificare la Carta si può. Ma anche per ampliare le libertà dei cittadini
Thomas Jefferson diceva che a ogni epoca diversa corrisponde il diritto dei cittadini di scegliersi la Costituzione sotto la cui disciplina desidererebbero vivere. In effetti non vi è mai alcuna “fine della storia” e a nessun consesso di “padri fondatori costituenti” potrebbe essere riconosciuta la capacità di disciplinare compiutamente ciò che è troppo di là da venire e di limitare l’autodeterminazione delle generazioni future. Era nel giusto Jefferson, anche se vi è da riconoscere che alcune conquiste scolpite nelle Costituzioni moderne rappresentano oramai acquisizioni inderogabili, quanto meno sul piano dei princìpi fondamentali. La tensione, così, fra l’aspirazione a una certa fissità dei testi costituzionali e quella a una loro radicale riconsiderazione dovrebbe essere risolta col “giusto mezzo”: l’ancoraggio alle fondamenta di ciò che ci è stato tramandato e il miglioramento continuo di ciò che necessita di essere adeguato.
La nascita delle Costituzioni, d’altra parte, è stata quasi sempre legata a momenti fondativi di nuove epoche le cui radici riposano su guerre, rivoluzioni, colpi di stato. Sia sufficiente porre mente alla Costituzione degli Stati Uniti del 1787, alle Costituzioni francesi dal 1789 in poi, a quelle italiana e tedesca del biennio 1948-’49, a quella greca del 1975 e a quella spagnola del 1978, per comprendere che la possibilità di riscrivere dalle fondamenta una Costituzione dipende da congiunture storiche spesso irripetibili.
La Costituzione italiana, avvolta negli anni da un’eccessiva retorica sull’infallibilità dei costituenti, è stata tuttavia rimaneggiata opportunamente nel 1992 per introdurre nell’articolo 111 i princìpi del giusto processo in materia penale, nel 2003 per modificare l’articolo 51 sulla parità di genere, nel 2007 per abolire definitivamente la pena di morte e recentemente per introdurre all’articolo 81 il pareggio di bilancio. Ma è stato quello del 2001 il restyling più ampio, come è noto, con la revisione del Titolo V che ha capovolto il criterio di ripartizione delle competenze fra stato e regioni, ha introdotto il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale, ha costituzionalizzato i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e internazionale. Riforma, quella del Titolo V, che, a quanto pare, è stata giudicata inadeguata per una molteplicità di ragioni che hanno spinto governo e Parlamento, come si sa, a rimettere in moto il procedimento di revisione costituzionale per modificare ancora una volta la distribuzione del potere fra i vari livelli di governo territoriale e per modificare, in aggiunta, composizione e competenze del Senato della Repubblica. Ma che siano queste le riforme costituzionali di maggior rilievo di cui il paese abbia davvero bisogno è lecito dubitare.
Si insiste nella ricerca di una maggiore efficienza del processo decisionale (senza incidere seriamente sulla forma di governo) e si trascura di migliorare il rapporto fra poteri pubblici e cittadini, di evolvere la forma di stato in senso ancor più liberale. E’ come se le classi dirigenti facessero finta di non comprendere che è l’arbitrio del legislatore a incidere negativamente, più di qualsiasi forma di bicameralismo perfetto, sulla vita e sulla libertà dei cittadini. E’ mancato ancora una volta il coraggio di estendere in Costituzione il divieto di retroattività alle leggi tributarie, d’inserire l’obbligo di legiferare in maniera chiara e omogenea, di introdurre nella Carta fondamentale un limite alla tassazione e un tetto alla spesa pubblica, d’introdurre la flat tax e di rinunciare al criterio della tassazione progressiva a favore della proporzionalità, di rendere inderogabile il principio di sussidiarietà orizzontale in virtù del quale la Pubblica amministrazione può svolgere attività d’interesse generale solo allorché i privati, singoli o associati, non vi riescano, di modificare gli articoli 41 e 43 della Costituzione che sviliscono il diritto di proprietà. E’ mancata, ancora, la lungimiranza di ampliare la nozione di famiglia e di riconoscere esplicitamente l’autodeterminazione di ciascun individuo nelle scelte che coinvolgono le più intime convinzioni personali. Sono queste le riforme di cui abbiamo veramente bisogno.