Gustavo Zagrebelsky, giudice della Corte costituzionale dal 1995 al 2004, e presidente della Corte nel 2004, è uno dei massimi esponenti del partito “aiuto, arriva il tiranno, la democrazia è in peric

Come nasce la paura del tiranno

Stefano Ceccanti
Da dove nasce la paura del tiranno? Al di là dei necessari aspetti tecnici, resto sempre debitore del primo convegno a cui ho partecipato ad Arezzo nel 1979 con Pietro Scoppola, Nicola Lipari e Augusto Barbera, organizzato dalla Lega Democratica, dal Titolo “La terza fase e le istituzioni”.

Da dove nasce la paura del tiranno? Al di là dei necessari aspetti tecnici, sia in materia costituzionale sia in materia elettorale, su cui non bisogna mai essere dogmatici perché la scelta dipende non solo dai princìpi ma anche dal contesto politico in cui si applicano, resto sempre debitore del primo convegno a cui ho partecipato ad Arezzo nel 1979 con Pietro Scoppola, Nicola Lipari e Augusto Barbera, organizzato dalla Lega Democratica, dal Titolo “La terza fase e le istituzioni”. Faccio un passo indietro per chiarire la ricostruzione storica che fu esposta in quella sede, poi riproposta organicamente da Scoppola nel volume su “La Repubblica dei partiti”, basata anche sull’intervista postuma di Scoppola ed Elia a Lazzati e Dossetti. I Costituenti riuscirono in un miracolo perché l’intesa sulla Costituzione resse anche alla frattura di governo della Primavera 1947. Tuttavia essa ebbe riflessi pesanti sui contenuti: restò uno scarto fortissimo tra i principi dello stato sociale affermati nella prima parte e gli strumenti deboli della seconda. Come ha spiegato anche Giuliano Amato nel suo volume sulle forme di stato e di governo (in ultimo edito per Il Mulino con Francesco Clementi) lo stato sociale funziona bene, è in grado di ristrutturarsi in modo coerente, se ci sono nelle grandi democrazie governi di legislatura investiti direttamente, anche grazie a potenti incentivi istituzionali. Questa chiave di lettura esclude ovviamente del tutto spiegazioni storiche surreali, come quella della non interferenza, specie alla Costituente, tra governo e assetti istituzionali, riproposte in modo naif anche nei dibattiti parlamentari di questo periodo. Dossetti e Lazzati ci raccontano della convocazione in convento dei costituenti dc da parte di De Gasperi che fa loro ritirare d’imperio gli emendamenti sul rafforzamento dell’esecutivo per la sfiducia reciproca sugli esiti incerti delle successive elezioni politiche, quello che Augusto Barbera ha definito il timore del 18 aprile degli altri. Molte altre le conseguenze tecniche di letture inevitabilmente politiche: man mano che gli equilibri si delinearono, le sinistre nazionalmente minoritarie divennero regionaliste per disporre di una base territoriale di sperimentazione di governo e i dc dal governo mollarono le teorie sturziane per diventare centralisti al fine evitare una lacerazione territoriale sull’asse della Guerra Fredda. Da qui anche il primo intervento sulla legge elettorale: quello del premio di maggioranza nelle amministrative del 1951 e per le Politiche 1953. Con la sinistra fuori gioco per ragioni internazionali e la destra in ripresa organizzativa, De Gasperi temeva di essere seriamente spinto (com’è noto anche dal papa) a compromessi con quest’ultima e cercò così di autonomizzare l’area di Governo. Il mancato scatto del premio rischiò quindi di giocare a destra, ma a causa dei fatti di Ungheria il Psi si autonomizzò dal Pci: a quel punto la legge elettorale, qualche mese dopo, nel 1957, poté anche essere stabilizzata sulla proporzionale pura, perché si apriva la strada politica del centrosinistra. Così, dopo, con l’evoluzione del Pci, si poteva arrivare alla solidarietà nazionale, premessa di un possibile sblocco verso l’alternanza dove, a quel punto, sarebbe ornata di attualità la questione delle regole.

 

Piccolo passo indietro. Torno a quel convegno del 1979. Sulla base di quella lettura storica, la proposta di allora delle Lega Democratica, purtroppo inascoltata, era quella di riaprire in modo diverso la fase di solidarietà nazionale, con una sorta di Grande Coalizione esplicita tra tutti i partiti maggiori, lasciando però al governo una capacità autonoma di indirizzo, senza il vetero-partitismo dei governi Andreotti, riportando per così dire la situazione alla Primavera 1947, dandosi finalmente le regole da democrazia governante per poi competere in seguito senza eccessivi timori reciproci. Le forze politiche però allora non erano pronte a questo schema, che collegava strettamente governo e riforme, come di fatto erano stati collegati in modo inevitabilmente regressivo nel 1947. Il Pci era ancora legato alla riformabilità interna del blocco dell’Est (paradossalmente l’ascesa di Gorbaciov rilanciò persino dal 1985 al 1989 questa speranza vana di un comunismo diverso), il Psi voleva prima capovolgere il rapporto di forze col Pci e solo dopo procedere a riforme bipolarizzanti, la Dc credeva di poter restare unita anche dopo la fine dell’egemonia comunista a sinistra che era invece la causa della sua esistenza come federazione di correnti eterogenee altrimenti impossibile. Le riforme tramite un nuovo assetto di governo erano impossibili perché le forze politiche sapevano quello che erano state, ma non sapevano ancora quello che potevano essere nel nuovo sistema. Ciò non di meno i dibattiti di quegli anni furono culturalmente utili per due motivi: Dc e Pci che erano ostaggi del potere di coalizione del Psi, specie a livello locale, misero in discussione il tabù della proporzionale pura, che sembrava intangibile dal Testo Unico del 1957, con le proposte Ruffilli (“Il cittadino come arbitro”) e Pasquino (“Restituire lo scettro al principe”), in nome della legittimazione diretta dei governi locali e nazionale, perfettamente compatibile con una forma parlamentare, creando le premesse culturali del movimento referendario, mentre il Psi intaccò il tabù della debolezza della Seconda Parte della Costituzione sulla forma di governo.

 

Il primo sistema di partiti si conclude quindi con un’innovazione dal basso, quella referendaria, che produce i suoi effetti per intero in modo abbastanza coerente nel 1993 con la legge sull’elezione diretta del sindaco: non casualmente perché, con la frammentazione crescente il sistema a quel livello era ormai impazzito e al potere di coalizione del Psi si era sostituito quello di ogni singolo consigliere. Viceversa sugli altri livelli, a cominciare dalla legge elettorale Mattarella, l’innovazione era contraddittoria e strabica per vari riflessi tecnici derivanti da un limite politico, la mancata prosecuzione dell’esperienza del governo Ciampi coi ministri Pds per un periodo più lungo. Se infatti quell’equilibrio avesse retto, si sarebbe consolidata dal governo un’alleanza di centrosinistra che avrebbe portato con sé il doppio turno di collegio e, sull’altro versante, le due destre separate, Lega e Msi, sarebbero state spinte a convergere o comunque a evolvere con afflussi dall’area moderata della Dc scontenta per l’accordo Ppi-Pds. Viceversa una vasta serie di fattori tecnici e politici impedì una partenza ben guidata del bipolarismo: la scelta del turno unico che trasponeva la frammentazione nelle coalizioni, la sommatoria tra voto unificante di coalizione e voto di liste che le separava, le due Camere che potevano produrre risultati contraddittori, il centro autonomo minoritario che persisteva con le alleanze più forti verso le estreme, le incertezze obiettive sull’interpretazione del potere presidenziale di scioglimento nel nuovo contesto. Non fu pertanto così strana la durata effimera della legislatura 1994-1996, che però ebbe quanto meno il merito di varare la riforma elettorale regionale del 1995 intorno alla quale maturò la fine del polo di centro e la nascita delle nuove coalizioni col contributo dei due spezzoni derivanti dal Ppi unitario.

 

La legislatura 1996-2001 dimostrò la forza di tutte quelle contraddizioni, del resto evidenziate dalla fine della legislatura precedente, quando nel giro di pochi giorni si tentò prima l’accordo su uno schema a Premierato (la cosiddetta bozza Fisichella) e poi su una variante poco chiara di semi-presidenzialismo (tentativo Maccanico).  Si voleva chiudere la transizione, tornando ancora una volta ai nodi irrisolto nel 1947, ma per altri versi i poli tendevano a delegittimarsi reciprocamente come se le distanze nel paese fossero simili a quelle del 1947, per di più ciascun polo era diviso al proprio interno con ambizioni varie di leader alternativi che si sarebbero trascinate: nel centrosinistra dalla premiership di Prodi doveva sorgere un partito oppure dalla guida di partito di d’Alema si doveva giungere alla guida del governo? Nel centrodestra Berlusconi sconfitto andava sostituito da Fini oppure no? Da queste contraddizioni politiche scaturivano le immani contraddizioni tecniche della Bicamerale D’Alema. Il governo doveva poter governare con la sola fiducia della Camera, ma per il persistere del complesso del tiranno un Senato eletto direttamente con la proporzionale avrebbe potuto paralizzare quasi tutto il programma di governo. Si sarebbe eletto direttamente un Presidente della Repubblica, ma gli si sarebbe tolto qualche potere anche rispetto alla Costituzione vigente, si sarebbe poi legittimato direttamente anche un premier con un sistema a premio di maggioranza con poteri non ben distinti dal Presidente e una durata dei mandati difforme che avrebbe favorito coabitazioni, teorizzate da molti come positive. Il tutto con lo stupore massimo dei francesi, a cominciare dai massimi studiosi della materia, da Lauvaux a Vedel a Duverger, dato che in Francia esattamente in quei mesi partiva la riforma anti-coabitazionista che sarebbe stata chiusa nel 2000 per parificare i mandati e chiarire i dubbi di sistema stabilmente a favore del presidente. Quelle indifendibili contraddizioni tecniche, non a caso non difese pressoché da nessuno in dottrina (altro che le riserve di parte della dottrina sulla riforma attuale!), erano però il frutto della politica, non dell’incapacità a scrivere norme. Fu pertanto facile, a causa di quella loro debolezza, per Silvio Berlusconi sganciarsi dall’accordo, scelta a cui era indotto dalle sconfitte elettorali che accumulava in quel periodo, anche per il fatto che sembrava socio di minoranza di un accordo costituzionale. Ritorna qui il problema posto nel 1979: è così lunga la procedura di revisione, se veramente si vuole produrre un accordo politico e tecnico di alto profilo, che risulta difficile da reggere se non si condividono anche al contempo le responsabilità di governo. Altrimenti il partner minore deve veicolare un messaggio difficile per l’opinione pubblica: come far capire che per vari anni si è all’opposizione del governo ma si condividono le riforme senza apparire subalterni? La fine della Bicamerale D’Alema non impedì comunque il varo di due riforme parziali: la prima, l’elezione diretta dei presidenti di regione allineava la forma di governo regionale su quella comunale rimediando al trasformismo che non era impedito dalla sola riforma elettorale (il premio di maggioranza introdotto nel 1995 aveva sì designato un chiaro vincitore, ma non comportava di per sé la tenuta della maggioranza per la legislatura, al di là del primo biennio per il quale era stato previsto nel 1995 un divieto di crisi a pena di scioglimento) e la riforma del Titolo V. Quest’ultima, al di là di alcuni eccessi di generosità dell’ultimo momento per conquistare voti leghisti nelle elezioni Politiche, eccessi che invece non c’erano nei testi della Commissione D’Alema, era carente soprattutto perché non modificava la composizione e la struttura del Senato per collegare tra di loro i legislatori, proponendo invece una timida soluzione tampone di integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti delle autonomie, così debole che poi non fu attuata.

 

[**Video_box_2**]Giunto al governo il centro-destra esso si trovò di fronte a tre contraddizioni. Per un verso doveva far finta di procedere a un di più di federalismo, di competenze da assegnare alle regioni, ma per altro verso era conscio che l’elenco del 2001 era troppo generoso: da qui l’apparente devoluzione di alcune materie su cui restavano però anche competenze statali che nascondeva un riaccentramento abbastanza sensato. Restò però l’immagine iniziale della devolution estrema, che non corrispondeva alla realtà, ma che era veicolata sia da chi sosteneva la riforma, in primis la Lega, sia da chi la contrastava, e che fu decisiva nella bocciatura referendaria. La seconda contraddizione era relativa alla volontà di aumentare l’efficacia decisionale dell’esecutivo, soprattutto spostando sul premier il potere di scioglimento che però andava conciliato con gli equilibri di coalizione: da lì una noma antiribaltone che praticamente dava il potere di scioglimento a ciascuno dei segretari dei partiti della coalizione, dato che un nuovo governo nella legislatura poteva costituirsi solo se c’era una stretta continuità di maggioranza. Si sarebbe così stabilizzata la logica del governo Berlusconi che durò per quasi tutta quella legislatura: un governo stabile ma succubo dei poteri di veto interni. La logica che fu comunque rafforzata nella riforma elettorale, passando dalla legge Mattarella a quella Calderoli, in cui le varie liste apparentate avevano in comune solo il capo della coalizione e per il resto erano concorrenziali, a ciò si aggiunse anche l’uso strumentale di un rilievo peraltro opinabile del Quirinale sulla legittimità di un premio nazionale al Senato nella speranza di bloccare il centrosinistra in un Senato senza maggioranza. Speranza poi verificatasi però non per la legge, ma per il recupero del centrodestra. Paradossalmente se fosse stato in vigore il premio nazionale al Senato lo avrebbe preso il centrodestra che superò in voti il centrosinistra sul territorio nazionale. La terza contraddizione, che inficiava in modo ancor più radicale la presunta governabilità stava nel Senato: avendo mantenuto l’elezione popolare diretta, sia pure contestuale alle regionali, i senatori, nella convinzione di mantenere il seggio in quell’Assemblea, che restava quindi appannaggio della classe politica nazionale, ottennero un potere abnorme di poter bloccare le leggi espressive dell’indirizzo di maggioranza, esattamente come era accaduto nel testo della Bicamerale D’Alema e mentre nel 2005 in Germania si erano ridotti sensibilmente i poteri di veto del Bundesrat, andando esattamente in senso opposto. Se la Bicamerale D’Alema si diceva semi-presidenziale e andava all’opposto di quanto stava facendo la Francia, la riforma del centrodestra si diceva federale e andava in senso opposto alla Germania.