Lettera di un pm al figlio (del suo onanismo morale)
Una lettera a un figlio che esce il 19 marzo, giorno della Festa del papà, dovrebbe destare un bel po’ di sospetti su chi sia il vero destinatario del dono. La “Lettera a un figlio su Mani pulite” di Gherardo Colombo li conferma tutti. Ma la data di pubblicazione conta fino a un certo punto, il veleno è nel genere stesso. Chi sono questi figli a cui si scrive per spiegar loro di volta in volta la Costituzione, la Resistenza, il Sessantotto? Sono finzioni retoriche che consentono di collocarsi nella posizione del buon padre, o del Seneca in veste da camera, e di godere piuttosto oscenamente della propria virtù. Il meccanismo è lo stesso di quando i liberi & giusti invitarono un tredicenne sul palco del Palasharp scambiandosi sguardi di lubrica soddisfazione, e fu uno spettacolo decisamente pornografico (le neuroscienze insegnano che il circuito cerebrale del piacere è attivato allo stesso modo dal vizio e dalla virtù).
Quella di Colombo è una lettera a “un figlio” astratto, non ai “miei figli” empirici (menzionati solo nella dedica), e cosa di più conveniente di un figlio generico per riverberare il narcisismo morale dei padri? Il figlio in carne e ossa non si accontenta delle storie sospettamente prive di ombre, conosce o intuisce le miserie paterne, avverte un suono fesso dietro l’intonaco delle omissioni, la sua presenza impone un dialogo vivo e drammatico. A un figlio astratto, invece, si possono anche recapitare cento pagine di ininterrotta esibizione di “self-righteousness”, magnifica parola inglese che compendia fariseismo, santimonia, autoindulgenza, compiacimento, lussuria morale: io che fin da ragazzo ho lottato per la Costituzione, io avvilito dall’arroganza del potere senza però arrendermi mai, io che neppure tentavano di corrompermi perché sono un osso duro, io così saggio che oggi propongo di superare il carcere, anche se poche pagine prima difendevo coi denti la custodia cautelare (si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio).
Questo documento di onanismo morale, va da sé, non può insegnare nulla su Mani pulite né ai grandi né ai bambini, e non gratifica che il caro papà nel giorno della sua festa. Ma sa attivare in altri modi il circuito del piacere dei lettori, grazie alla comicità involontaria dei suoi espedienti retorici e dei suoi eufemismi. Per esempio: Di Pietro ha “una grandissima capacità di convincere le persone a dire quello che sanno”. Oppure (avanspettacolo): ci accusano di abusare del carcere ma il pm non ha il potere di emettere misure di custodia cautelare, deve sottoporle al gip, “e dunque non ne può abusare”.
[**Video_box_2**]Agli incolpevoli liceali a cui questa epistola sarà probabilmente inflitta in qualche corso di educazione alla legalità vorrei tanto poter dire che le sole lettere su Mani pulite che valga la pena leggere sono quelle di Gabriele Cagliari, rivolte a famigliari reali, non a uno specchio delle mie brame. Ma perché giocare retorica contro retorica? E’ più forte, pruriginosa direi, la voglia di gridare a questo “figlio” l’allarme di Massimo Troisi a Robertino, ostaggio della virtuosissima madre Ida: “Robe’, tu ti devi salvare, va’ mmiez’a strada, tocca ’e femmene, va’ a arrubbà, fa’ chello che vuo’ tu!”.