Che futuro ha il governo Karate Kid?
Lupi va a casa non per il Rolex o per la raccomandazione, ma per incapacità di gestione ministeriale. Nel governo non cambia niente perché è Renzi a disegnarne il profilo e scandirne i tempi.
Karate Kid contro “una vecchia gloria del Wrestling”. Il problema non è stabilire chi vince tra Renzi e D’Alema (il finale, potete già metterlo nero su bianco) e neppure immaginare cosa facciano la maggioranza (renziana) e la minoranza (dalemiana?) del Partito democratico. Matteo Renzi ha fatto invecchiare tutti gli aspiranti al trono e per questo gli altri appaiono tutti un po’ come delle “vecchie glorie”. Indossano la vestaglia, mettono le pantofole, si alzano e borbottano, si telefonano al mattino per fare il punto della situazione, pranzano al solito posto, dichiarano al Tg3, schiacciano un pisolino, si risvegliano all’ora del tè, dichiarano a Repubblica, fanno un distinguo, commentano (dandosi di gomito) la terrazza con signora di Varoufakis, cenano al solito posto, si telefonano per fare il disappunto della situazione, si rivedono al Tg3, si (ri)leggono su Ripubblica. Poi nanna, sveglia, drin! Si ricomincia.
Sono come quel lottatore che fa un sacco di casino sul ring, si agita, urla, piroetta, poi Karate Kid-Renzi assesta un colpo dritto sul grugno, barcollano come uno che ha preso una sbronza di troppo nella vita e vanno al tappeto senza più rialzarsi. Sono irriverente? No. Perché Massimo D’Alema è un uomo intelligente e sa bene che nel registro di questo articolo c’è una verità: il lampante anacronismo delle sue/loro critiche. E provo a spiegarmi partendo dal caso di Maurizio Lupi.
Condivido le critiche di Ferrara e Cerasa sul corto-circuito giudiziario del caso Lupi, ma caro Giuliano e caro Claudio, il (fu) ministro doveva lasciare l’incarico non per il Rolex al figlio (orologi suoi), il posto di lavoro sempre al figlio (c’è un’intera nazione che tiene famiglia), i vestiti pagati da terzi (un gentleman provvede da sé o lascia il compito a una signora), il biglietto aereo pagato alla moglie (mai far pagare ad altri i servigi per la tua donna). No, non per questo Lupi doveva andare a casa. Lupi doveva accomodarsi fuori dal governo perché un ministro non si fa scrivere lettere e interrogazioni da un funzionario, che si chiami Incalza o mezza calzetta. La politica sotto dettatura del Grand Commis – angelo o demone che sia – è commissariata. Conosco la realtà dei problemi di governo e non sono certo affetto dal morbo del moralista mozzaorecchi. Ma è come se Ferrara e Cerasa si facessero dettare la linea e poi scrivere gli articoli da un impaginatore e vi apponessero la loro firma. Ingannerebbero i lettori. Lupi va a casa per incapacità di gestione ministeriale, per boria (“faccio cadere il governo!”, maddai), per nanismo ideologico e onanismo verbale. Tanti saluti. The show must go on.
Sì, certo, la magistratura e il suo strapotere. Figuriamoci. Renzi è finito ai materassi con l’Associazione nazionale magistrati. Volete di più? Fa il politico, non il kamikaze. E poi nel governo non cambia niente perché è Renzi a disegnarne il profilo e scandirne i tempi. One man show? Può darsi, con mille problemi e molta improvvisazione al potere. Ma in fondo, a destra, non c’è niente in grado di offrire non dico un’alternativa di governo, ma qualcosa che somigli a un progetto politico. E’ tutto da rifare. Ground zero. La minoranza del Pd non ha una visione, ma una versione arrugginita della realtà, un arsenale daSturmtruppen che abbiamo già visto all’opera nel centro-sinistra con il trattino (versione Cossiga) e nell’Ulivo. Una impossibile sintesi tra diversi belligeranti che fanno crostate, torte e si intortano gli uni con gli altri, un meteorico fusionismo e una presunta superiorità antropologica che fece secco anche il talento politico di Romano Prodi. Vogliamo tornare indietro? Facciamolo. Massimo D’Alema divenne presidente del Consiglio grazie a una manovra da manuale di Francesco Cossiga e la sua parabola fu una collisione tra le intenzioni e i mezzi a disposizione. Era una cossigheria che serviva a rompere lo schema politico della Prima Repubblica, superare il tabù del comunista a Palazzo Chigi e soprattutto mettere nel sacco Prodi. Era il terzo tempo di una partita fra ex democristiani. Nient’altro che questo. Ah, che bei tempi, quando la sinistra era una sinfonia di amori celesti. Ecco cosa disse Romano Prodi al Corriere della Sera il 19 dicembre del 1998: “La crisi di governo non è stata un complotto, ma quasi. Era una cosa studiata da tempo. Il fatto che Cossiga abbia concesso a D' Alema quello che non ha concesso a me, è significativo”. Certo, Prof. Ma il governo D’Alema era fritto anche senza versare l’olio in padella. Andrebbe riletto con attenzione un diario che ne fece qualche tempo fa Claudio Velardi per capire quali problemi ebbe quell’esecutivo fin dalla nascita, il deficit di leadership del premier di allora, l’indecisione a tutto della coalizione, la confusione elevata a sistema di governo, sembrava l’idea di mettere sul campo di calcio il “casino organizzato” teorizzato da Eugenio Fascetti. Solo che restava il casino e basta. Organizzazione zero. Quel governo era Frankestein. E come tale, si schiantò di fronte alla realtà. Il governo D’Alema fu il cinquantaquattresimo della storia della Repubblica, rimase in carica 427 giorni, giurò nel 1998, un anno dopo era già cotto e il successivo bis durò appena quattro mesi, fino al 25 aprile del 2000. Liberazione. Go home.
Quella stagione politica non era nel segno di D’Alema e Berlusconi, nasceva dal confronto tra il Professore e il Cavaliere. Derby Bologna – Milano. Perché dietro, in fondo, c’erano due culture di potere che avevano qualcosa da dire nella società e non in sezione. Quella nata dai “professorini” della Dc, figlia dell’Università Cattolica, di Dossetti e della sinistra democristiana; e quella di Berlusconi, king maker di se stesso e “grande federatore” dei non allineati alla storia riscritta dai pubblici ministeri. E così fu. D’Alema in questo senso – lo scrivo con grande rispetto e simpatia – è un residuato bellico. Sembra un giapponese che combatte su un’isola deserta del Pacifico. Ma la sua guerra è finita da un pezzo. Renzi ne conduce un’altra. E l’unico avversario che ha, per il momento, si chiama Renzi.
Il presidente del Consiglio ha una doppia agenda: il governo del partito e il governo del Paese. Sono due taccuini che non sempre sono sincronizzati e sul quale spesso leggiamo anche dei pasticci. Ma non ci sono dubbi che il suo intento è quello di tenere insieme la coppia di appunti. Renzi in questo senso è un leader rarissimo. Berlusconi a un certo punto della sua avventura decise digiocare da solo. Provò nei primi anni di Forza Italia a dare una forma al suo sistema, ma in realtà il suo interesse per il partito fu sempre limitato e condizionato dalla sua percezione della leadership come rapporto diretto tra la persona e l’elettore. Il segretario fiorentino ha un altro passo: Renzi è consapevole della sua capacità di dialogo con gli elettori, ma governa il partito, ne riconosce il valore strategico e quando si tratta di fare scelte decisive lo mette davanti a tutto. L’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica ne è il più chiaro esempio. La Stangata del Quirinale nasce perché Renzi vuole che il Pd sia unito da quella scelta. Avrebbe potuto tranquillamente eleggere un Presidente con i numeri del Patto del Nazzareno, tenere buono il Cavaliere e andare avanti senza scossoni. Ma sceglie un’altra strada perché pensa che il suo partito sia lo scettro e senza scettro non c’è potere. La minoranza dalemiana dovrebbe ripercorrere questo passaggio con più obiettività e porsi due o tre domande sul futuro, ma non lo fa perché in realtà non ha mai digerito il takevoerrenziano, non ha capito che cosa è successo, non ha il passo e la cultura per stare nel segno dei tempi. Cosa è nato dopo quello strappo? Niente. O meglio, caro D’Alema, c’è il patchwork luddista di Maurizio Landini. Tanti auguri. La realtà è che lo Zeitgest di Renzi non prevede il compromesso a tutti i costi. Eleggere insieme Mattarella non significa fare pappa e ciccia per il resto dei giorni. Renzi fa Renzi. Voi cosa fate?
Poi c’è la fortuna. E nel caso del Nostro, gioca un ruolo enorme. Ciò che porta la sorte non ha spiegazioni razionali, ma arriva e compone lo scenario nel quale poi un politico di razza si muove con disinvoltura. Cosa intendo per fortuna? Nelle pagine di The Churchill Factor, un’ottima biografia su Winston Churchill scritta da Boris Johnson, pirotecnico e pugnace sindaco di Londra, la storia di uno dei giganti del Novecento è costellata di occasioni che il leader fa sue, interpreta, piega e dispiega. Carpe Diem. La fortuna arriva. E si coglie. Il giovane Churchill va in Sudan con le truppe inglesi. E produce un insuperato racconto sugli orrori della guerra intitolato The River War. A venticinque anni Churchill è il giornalista più pagato d’Inghilterra. Perché osa. Ha fame di vita e fama. Si fa impallinare. Ne combina di ogni colore. E’ politicamente scorretto. E’ un genio che perde. Cade. E si rialza. Va sempre dove c’è un’occasione per il suo talento. Cerca fortuna.
Il presente per Renzi è una prateria di occasioni. L’Europa è in cerca di un’identità, la Francia in una crisi profonda, la Germania ha preso un ruolo guida che non vuole esercitare fino in fondo, la Banca centrale europea grazie a Mario Draghi ha creato le condizioni per una ripresa e allineato l’euro al dollaro, gli emiri dell’Arabia Saudita hanno provocato il big drop del prezzo del petrolio, gli Stati Uniti sono in cerca di un credibile interlocutore nel Mediterraneo, la Libia è in fiamme, la Siria è sangue, l’Egitto cerca pane e futuro per 82 milioni di persone, Israele ha bisogno di alleati per non sparire, l’Iran di realpolitik, la Russia di Putin è in trincea. Vogliamo continuare? Quante occasioni! E nessun capo di Stato tra i paesi del G7 può proporsi come un leader per i prossimi vent’anni. Non Angela Merkel che ha quasi finito il suo glorioso giro di giostra, non David Cameron incalzato dall’Ukip, non Francois Hollande vittima di se stesso e della demagogia della gauche da boulevard, non Mariano Rajoy alla guida di una Spagna con il 25 per cento di disoccupazione. Renzi ha davanti a sé la prospettiva della longue duree, è il premier di un Paese con mille problemi ma con una manifattura di prim’ordine, un debito che è debolezza e forza (too big to fail) e una cosa inestimabile che si chiama bellezza e Italian Way Of Life, è il capo di una nazione che nei prossimi dodici mesi ha davanti l’Expo e un Giubileo. Il mondo sarà qui. Con o senza Renzi. Eccola, la fortuna.
[**Video_box_2**]Sono fatti che vanno ben oltre le dimissioni di un ministro per caso, le riunioni della ditta, i colpi di coda di una magistratura irresponsabile, le chiacchiere degli intellettuali in guanti bianchi, la legge elettorale così o cosà. Ma chissenefrega, scusate. Renzi deve superare la rottamazione, scegliere il meglio per il suo governo e lasciare il “giglio magico” alle sue già grandi fortune rispetto al valore e alla visione che hanno espresso finora. Deve rinnovare se stesso. Crescere. Osare. Per questo deve trasformarsi da conquistatore a costruttore. Cosa significa? Leggo la stupenda biografia di Napoleone scritta da Louis Madelin: “E’ raro che lo stesso uomo sia chiamato a scavare il solco e a gettarvi la semente, a sconvolgere il mondo e a ricostruirlo. (…) A ventisett’anni, un caso meraviglioso lo pone alla testa d’un esercito a brandelli del quale egli fa un esercito di bronzo: con esso trionfa e, vincitore, si rivela improvvisamente quello che, in fondo, è sempre stato: un organizzatore. Contro le istituzioni stesse di quelli che governanoe proprio quando gli viene ordinato di distruggere, egli costruisce: uno Stato Italiano esce dalle sue mani, un piano di grande politica si attua, concenzioni a lontana scadenza s’affermano”. Il “caso meraviglioso” è arrivato. Ho capito, quello era Napoleone. Di questi tempi, basta Karate Kid. Aspettiamo il costruttore.