Un altro Pisapia è impossibile
Milano. Una delle ultime cose che ha detto da sindaco non ancora rinunciatario, presentando un libro mercoledì scorso, è uno dei suoi vecchi pallini garantisti, una sua idea inamovibile di come debba essere una città civile e inclusiva: finché rimango sindaco, il carcere di San Vittore resta dov’è, in centro alla città, perché non si rimuove la questione spostandola in periferia, ed è giusto che una città viva accanto a quel suo non trascurabile problema che si chiama carcere, che si chiama giustizia. Tra un anno non sarà più sindaco, ma tanto di spostare San Vittore si parla da decenni, e nessuno s’è mai preso la briga di decidere. Milano è Italia anche per cose così. Fatta cento la buona fede civica di Giuliano Pisapia, e fatto un settanta anche l’impegno della sua giunta di “giovani”, ora che il primo cittadino che strappò dopo vent’anni Milano al centrodestra ha annunciato, con un anno abbondante d’anticipo, che non si ricandiderà, bisogna domandarsi cosa rimanga di quel suo sogno (o programma) di una sinistra utopica e radicale. Quell’idea arancione di una sinistra fatta di verde e di inclusione sociale, di biciclette e welfare per (quasi) tutti, di sicurezza ma coniugata alla bontà e di freni ben tirati di fronte a qualsiasi piano di sviluppo: dalla privatizzazione della società aeroporti all’affossamento del Piano di governo del territorio che la Moratti aveva appena fatto in tempo a sbozzare.
E si scopre che la rivoluzione arancione di Pisapia è stata in realtà una sindacatura in difesa. Nessun milanese ricorda, tranne l’Area C, un solo grande progetto: l’Expo e i grattacieli e le metropolitane sono eredità delle giunte precedenti, addirittura di quando l’assessore all’Urbanistica di Gabriele Albertini si chiamava Maurizio Lupi. Un quinquennio di stagnazione. Il prossimo sindaco dovrà per prima cosa avere un’idea di città da offrire. Dell’Expo dopo l’Expo, di cui nessuno parla.
Dell’internazionalizzazione economica, che nessuno governa, della cultura senza soldi. E anche della città metropolitana che ha già iniziato a esistere sulla carta, ma di cui nemmeno la sinistra attenta alle periferie esistenziali sembra avere un’idea chiara. Del resto, dice qualche milanese con la memoria lunga, Milano come progettualità ha finito di esistere con Tangentopoli. Se adesso un personaggio come Tonino Di Pietro può addirittura annunciarsi candidato, è anche perché un sindaco come Pisapia è stato più attento a non firmare possibili abusi cartacei che a prendere iniziative. Più che un test nazionale, Milano dovrebbe essere per l’Italia un test internazionale. Anche se la rinuncia anticipata è in buona parte l’esito di un abbaglio collettivo.
Quando venne eletto, una milanese intelligente e non allineata come Marina Terragni raccontò, sul Foglio, genesi e antropologia di quell’abbaglio, presi in diretta alla festa per Pisapia: “Quello che stava capitando lo si capiva meglio da quelle auto strombazzanti, utilitarie e Suv, professionisti con cravatta gioiosamente agitata fuori dal finestrino. Tecnicamente, esteticamente, berluscones. E lo spettacolo dei berluscones esultanti per lo schiaffo a Berlusconi diceva tutto quello che c’era da dire… La borghesia e i ceti medi produttivi non ne potevano più e si agitavano da tempo in cerca di una soluzione”. La trovarono? No. Perché la sinistra che governa con Pisapia non si è dimostrata all’altezza di una città (felicemente) globalizzata, dove Pirelli finisce in Cina e le università d’eccellenza hanno fame di internazionalizzazione (ascoltare uno come il rettore della Statale, Gianluca Vago), i grattacieli finiscono in mani qatariote e il calcio è straniero. “Se c’è una cosa che è mancata a Pisapia è proprio guardare ai grandi scenari e mutamenti”, dice un analista (di sinistra). Non sono le biciclette e qualche moschea in più a poter reggere la sfida. Serve altro, e ora c’è un test lungo un anno per vedere se esiste. “Rispetto al 2011 è cambiato il mondo”, spiega Alessandro Alfieri, segretario regionale del Pd, renziano. “Allora il Pd non sapeva incontrare la società al di fuori della sua base. Il fenomeno arancione, anche in altre città, nacque da lì. Ma il risultato delle europee, a Milano il Pd ha preso il 45 per cento, dimostra che il popolo delle partite Iva, degli impiegati, dei giovani ha spostato il suo orientamento. Questo centrosinistra ‘largo’ che prima non c’era adesso è un’ipotesi di lavoro credibile”. Eppure, quattro anni fa Pisapia sconfisse Letizia Moratti per sei punti, manciate di migliaia di voti, non un’enormità. E che in città il Pd abbia una costituency migliore di quella di Pisapia è una scommessa legata alle idee. Per questo sono già stati convocati gli Stati generali del Pd, a fine maggio. E bisognerà mettere tanta carne al fuoco. Poi bisogna affrontare le primarie. Anche se Alfieri mette le mani avanti: “Le primarie sono la strada maestra. Ma non sono un totem”. Perché le primarie, il Pd, le perde spesso.
[**Video_box_2**]Le girandole di nomi sono già partite. Andrea Guerra, ex manager Luxottica che piace molto a Renzi (“ma è un po’ un Cantone del business, va bene per tutto”, dice un milanese che se ne intende). O un nome come quello dell’ad di Expo, Giuseppe Sala, che potrebbe essere il candidato perfettamente intercambiabile per i due schieramenti. Poi c’è sempre l’idea del candidato civico, che potrebbe essere una via d’uscita per il Pd, da Umberto Ambrosoli in giù, ma soprattutto per il centrodestra. Ma il candidato civico non è mai stato vincente in una Milano sempre indecisa tra il sogno di un governatore – Milano città-quasi stato, che dal 2018 potrebbe rappresentare una città metropolitana da 4 milioni di abitanti e dal pil esorbitante – e l’idea del borgomastro: il modello Albertini. Raccontata così, sembrerebbe che la successione di Pisapia sia una partita tutta interna alla sinistra. Naturalmente non lo è. Anche se la destra oggi sembra più un campo di displaced person, senza progettualità, che una coalizione possibile. Ma chiunque legga i sondaggi sa che in cima alle domande dei milanesi c’è la sicurezza. E sicurezza oggi vuol dire Matteo Salvini.