Voilà, ecco a voi il principio di realtà
C’è un filo sottile che tiene insieme l’ammaccamento del Front national di Marine Le Pen, uscito ridimensionato dalle ultime elezioni comunali francesi, la perdita di linfa di Tsipras, uscito ridimensionato dalla battaglia economica europea, la non maturazione di Podemos, partito che non è riuscito a sfondare nel voto regionale in Andalusia, la perdita di consenso di Farage, i cui sondaggi hanno cominciato a schizzare non più verso l’alto ma verso il basso, la lenta disgregazione, in Italia, del Movimento 5 stelle e la fine poco gloriosa della rivoluzione arancione, dei populismi all’amatriciana stile Marino, De Magistris, Pisapia, Crocetta.
La questione è sempre la stessa e il tratto in comune delle esperienze appena citate ci dice qualcosa di preciso su un punto importante della nostra èra politica: le leadership che crescono facendo leva unicamente sul loro essere outsider, sul loro essere gli unici e autentici depositari dell’interesse del Popolo, sono realtà fragili, vuote e passeggere che alla prova dei fatti dimostrano di essere poco altro che leadership biodegradabili. L’odissea di Tsipras, ma in piccolo anche quella di Farage e di Le Pen e di Grillo, è forse il caso più eclatante di che fine fa la politica che sceglie di puntare più sul principio del piacere che sul principio di realtà, e che costruisce la propria identità basandosi non su ciò che è possibile fare per governare ma su ciò che è possibile fare per vincere le elezioni. Il populismo, anche nelle sue forme più romantiche e persino più civili, perde consistenza non solo alla prova del governo, quando capisce che il principio di realtà è fatto di regole e perimetri da rispettare, ma anche nel momento stesso in cui mette un piede dentro le istituzioni, e quando mostra di non avere alcuna carta segreta per dare concretezza al marketing dell’outsiderismo. In Italia, se vogliamo, il momento in cui l’outsiderismo ha visto esprimere la sua vacuità ha coinciso con gli anni della non rivoluzione arancione, ed è proseguito in questi mesi con l’auto tsunami tour del Movimento 5 stelle (da un’impotenza all’altra). In Europa, invece, il momento in cui il populismo ha mostrato il suo illusionismo ha coinciso con le ultime europee, con gli exploit di Le Pen (25 per cento), di Farage (31 per cento) maturati in un contesto in cui gli elettori tradizionalmente votano con criteri adolescenziali, dunque poco responsabili, basandosi più sui desideri che sui princìpi.
[**Video_box_2**]Il populismo senza spalle larghe e l’outsiderismo senza contenuti credibili sono uno yogurt con una scadenza ravvicinata e la lezione di questi giorni, seppure parziale, ma comunque significativa, è una lezione utile anche per Renzi. Alle europee del 2014 il Pd è stato l’unico partito di governo ad aver resistito alla pratica del voto adolescenziale ma lo ha fatto anche giocando a suo modo con la grammatica del populismo. “E’ stato” – ha scritto onestamente Graziano Delrio in un libro appena uscito per Marsilio, “Cambiando l’Italia” – “un atto di prepotenza il nostro? Abbiamo adoperato un linguaggio troppo populistico? Siamo stati mossi da arroganza priva di disciplina? Probabilmente sì”. Un populismo diverso, perché a differenza degli altri Renzi ha dietro le spalle un partito litigioso che tuttavia funziona, ma un populismo che può resistere solo se gioca con il principio di realtà e non accarezza troppo il pelo dell’opinione pubblica. E ogni riferimento a persone esistenti o a fatti accaduti non è puramente casuale.