Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

In esclusiva, il discorso sulla giustizia che Renzi non farà mai alla nazione

Claudio Cerasa

Il vero bavaglio nel nostro paese è quello che la dittatura delle intercettazioni vuole mettere alla democrazia.

Cari colleghi, onorevoli giornalisti, amici elettori, gentili intercettati. Ho passato queste ore di festa a pensare a molte cose e in particolare a quello che è successo nel nostro paese negli ultimi giorni – e mi verrebbe da dire negli ultimi anni – e che credo sia arrivato il momento di fermare e di sanare una volta per tutte. Non ci possono più essere sfumature e non ci possono più essere ambiguità e lo dico nel modo più chiaro possibile: non possiamo più accettare che chi governa questo paese, a livello nazionale e a livello locale, a livello politico e a livello imprenditoriale, sia costretto a fare i conti ancora a lungo con l’unico vero regime che esiste oggi in Italia: la dittatura delle intercettazioni. Sorrido di gusto quando ascolto i campioni della difesa della democrazia, i fenomeni dell’indignazione in servizio permanente, ribellarsi di fronte a un governo che starebbe trasformando l’Italia in una succursale della tirannica repubblica delle banane. Mi verrebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. E se non ci fosse da ricordare, con urgenza, che se in Italia esiste un potere che si comporta come un regime dittatoriale quel potere, cari colleghi, onorevoli giornalisti, amici elettori, gentili intercettati, coincide con le forze – politiche, giudiziarie e mediatiche – che hanno permesso indisturbate che la nostra democrazia diventasse schiava di uno schizzo di fango. Dicevo le intercettazioni, sì. E’ ovvio, non sono scemo: so perfettamente che le urgenze dell’Italia sono altre, che le riforme che dovrei fare sono molte, che le priorità oggi sono legate all’economia, al lavoro, alla spesa pubblica, alle tasse e alla necessaria crescita del nostro paese, che è ancora insufficiente e che chissà se ci permetterà mai di spiccare il volo.

 

Ma quello che è successo negli ultimi tempi, prima con l’ex ministro Maurizio Lupi poi con l’enologo Massimo D’Alema, mi ha fatto riflettere molto. E mi ha fatto capire che in passato, su questo tema, ho sbagliato anche io, e che forse è ora di rimediare. Vedete, il mio ragionamento è semplice: non esiste una democrazia che possa avere la certezza di governare con tranquillità se dietro quella democrazia esiste un meccanismo di potere, perché di potere si tratta, che utilizza alcune armi improprie come le intercettazioni per decidere il destino di un politico, di un ministro, di un sindaco, di una giunta e persino di un governo. La meccanica di quello che succede mi sembra evidente e volendola ridurre all’osso la potremmo mettere giù così: c’è un’inchiesta, quell’inchiesta permette l’uso di intercettazioni, le intercettazioni a volte pescano informazioni non solo sulle persone indagate ma anche su quelle non indagate, spesso e volentieri le informazioni che riguardano le persone non indagate finiscono mescolate con le informazioni che riguardano le persone indagate e mescolando tutto in un grande frullatore succede quello che abbiamo visto tutti negli ultimi anni: più le persone intercettate senza essere indagate sono importanti e più quelle informazioni verranno inserite in un fascicolo giudiziario solo ed esclusivamente per alimentare quel mostro che è diventato il processo mediatico. Il principio è generale ma ha un’accezione particolare nel mondo della politica per una ragione che vi illustro rapidamente. Un politico intercettato e non indagato – e pronto per essere sputtanato – è un politico che nelle telefonate può aver detto anche le cose più oscene del mondo ma, al fondo, è un soggetto ostaggio del processo mediatico e in qualche misura è dunque un soggetto ricattato. E’ vero. Anche a me è successo in diverse occasioni, penso al caso Lupi e penso al caso Cancellieri, di aver utilizzato per questioni politiche che mi potevano tornare utili delle intercettazioni che riguardavano miei avversari, e da cui ho tratto un giovamento (sono diventato premier, prima, ho preso un ministero, poi). Il passato però è passato e, complice la riflessione di questi giorni santi, ho deciso che bisogna attrezzarsi per il futuro. E proprio pensando al futuro, al futuro del paese e anche al futuro dei nostri figli, mi sono reso conto che continuare a essere ostaggi di questa dittatura è un rischio troppo grande per la nostra nazione. Intendiamoci: io non credo che la magistratura sia politicizzata. Io credo però che la magistratura sia prigioniera di una serie di magistrati fuori controllo, convinti che compito della magistratura sia combattere non solo l’illegalità ma anche l’immoralità, e che in nome di questo principio si sentano in dovere di dover uscire fuori dalle righe, di utilizzare mezzi di lotta all’illegalità quasi illegali e che, sempre in nome di questo principio, si possano sentire nel giusto quando infilano il nome di qualcuno estraneo alle indagini nel frullatore del processo mediatico, quando non stracciano intercettazioni che andavano stracciate e quando, è successo negli ultimi giorni, fanno arrivare ai giornalisti non solo intercettazioni ma testi di interrogatori che fino a prova contraria dovrebbero essere segreti e secretati. Tutto questo, tutto questo lento trasformarsi della nostra Repubblica democratica in una Repubblica giudiziaria, sono convinto che sia un danno per la nostra vita e penso che non sia più accettabile che questa piccola minoranza impazzita di magistrati fuori controllo sia autorizzata con un clic a rovinare per sempre e senza ragione la vita di un politico e di un governo. Cari colleghi, onorevoli giornalisti. Io capisco bene quando i direttori dei giornali dicono che se una notizia arriva a un giornale, a prescindere da come quella notizia sia arrivata, compito di un giornale è, per l’appunto, dare le notizie. E mi è chiaro che se arriva un’intercettazione di un politico che dice qualcosa di moralmente non impeccabile per un giornalista è davvero dura non pubblicare quella notizia. Si tratta sempre di una scelta, però, non è un dovere, non esiste l’obbligatorietà della pubblicazione dell’azione penale, si potrebbe sempre decidere, volendo, di privilegiare, come succede in America, il diritto alla privacy sul diritto di cronaca. Ma comunque il tema, così posto, non è inquadrato bene. Il problema non è “se” pubblicare. E perderci nei dettagli rischia di farci perdere il punto vero della questione. E il punto è evidente: non è tanto che un giornalista non deve pubblicare un’intercettazione malandrina ma è che quel giornalista l’intercettazione malandrina non dovrebbe riceverla. Per il semplice fatto che quell’intercettazione, se riguarda persone terze, non indagate, non dovrebbe finire in un fascicolo giudiziario. E invece non funziona così.

 

[**Video_box_2**]La discrezionalità con cui un magistrato o un giudice inserisce in un fascicolo giudiziario, a disposizione delle parti e anche dei giornali, un’intercettazione malandrina è infatti pressoché totale. Le regole ci sono ma non vengono rispettate. E ogni politico che parla al telefono, oggi, è un politico che può essere ricattato. Perché si può essere sputtanati per una telefonata innocua o per una chiacchiera come un’altra. E oggi può capitare, come forse sta già capitando, che ci siano procure che hanno deciso di mettere in vivavoce un governo. Onorevoli colleghi. Sono cresciuto osservando con dolore governi caduti e mi verrebbe da dire abbattuti per via giudiziaria. Sono cresciuto, come uomo e come politico, osservando con dispiacere e con rabbia il modo in cui il nostro paese non è riuscito a far sua la lezione di Montesquieu, quella dell’equilibrio dei poteri, del potere giudiziario che deve esimersi dall’essere potere legislativo e dal potere legislativo che deve esimersi dall’essere potere giudiziario. Oggi però l’emergenza è forte, e per riequilibrare questo squilibrio il potere legislativo non può che intervenire in una certa misura nel potere giudiziario, come stiamo provando a fare anche al Csm, dove non a caso abbiamo scelto come vicepresidente un ex esponente del nostro governo. Siamo in una fase di grandi anomalie e per combattere alcune anomalie a volte bisogna mettere sul campo altre anomalie. Il mondo della giustizia va riformato nel suo insieme. Ma senza partire dall’Abc e senza capire oggi quali sono i terreni sui quali si gioca la nostra vita democratica non si va da nessuna parte. Vedete. Io non ho nulla da nascondere e neanche chi lavora per me lo ha, ma rimanere ostaggio di un contropotere che con un clic può decidere la vita dei ministri e dei governanti è inaccettabile. E per questo ho deciso di presentare nel prossimo Consiglio dei ministri un decreto urgente per porre fine a questo sciacallaggio. So che qualche testata un po’ pigra che ha dato prova in più occasioni di confondere il giornalismo d’inchiesta con la pubblicazione di veline di un magistrato urlerà le solite parole, sventaglierà il solito “bavaglio” e riempirà le sue pagine di post-it. Ma se c’è un bavaglio in questo paese, cari colleghi, onorevoli giornalisti, amici elettori, gentili intercettati, quel bavaglio è quello che la dittatura delle intercettazioni vuole mettere alla democrazia. Così non si può più andare avanti. E so che forse i giornali non saranno d’accordo con me ma il paese vedrete che lo sarà. E per questo ho deciso di agire. Di fermare questa gogna. E vi giuro che lo farò. Grazie a tutti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.