Le parole che mancano al premier per sfruttare il vento favorevole. Appunti sul minimalismo della Renzinomics
Ci piacerebbe molto che fosse solo tattica e che la scelta fatta da Matteo Renzi di migliorare, rispetto alle previsioni del 2014, le stime relative alla crescita del 2015 di un risicato 0,1 per cento fosse solo frutto di un ragionamento politico: oggi la tocco piano sapendo che un domani quando le cose andranno meglio potrò dire “visto che bravo, ho fatto più di quello che era stato previsto”. Potrebbe esserci anche questo nel minimalismo della Renzinomics, ma la nostra impressione è diversa. Ed è che, nonostante la buona volontà, l’imbarcazione guidata dal presidente del Consiglio non sarà in grado di sfruttare il mare piatto e il vento favorevole che si intravedono nell’orizzonte del nostro paese. Non bisogna essere dei raffinati economisti per capire come sia deprimente prevedere una crescita dello 0,7 per cento nel 2015 a fronte di quel mix fortunato fatto da petrolio basso, euro basso, costo dell’energia ridotto, elevati risparmi sui tassi di interesse e Quantitative easing (che da solo, secondo Draghi, vale un punto di pil sulla nostra economia) che sarà a lungo un vento favorevole che soffierà forte nelle vele del governo. La vera domanda, oggi, è dunque questa: ma Renzi sta mettendo in campo le giuste misure per sfruttare questo vento favorevole? La nostra impressione è che, pur partendo dai giusti presupposti, il governo oggi corre il rischio di perdere un’occasione importante se mancherà una serie di questioni cruciali che ci permettiamo di mettere in fila. Due in particolare.
Punto numero uno: tasse e spesa pubblica. Renzi potrà pure continuare a regalare ottanta euro a tutte le persone del mondo. Ma fino a che non spiegherà al paese che il modo migliore per far ripartire i consumi è abbassare le tasse in modo strutturale (cosa si aspetta ad abolire l’Irap?) e che le tasse si abbassano tagliando la spesa pubblica (si studi meglio Cameron) e non finanziandole con altre tasse (Imu agricola) o con altri aumenti di spesa (gli ottanta euro tecnicamente sono questo) il presidente del Consiglio non potrà che arrendersi alla verità dei numeri contenuta negli stessi documenti diffusi dal suo governo. Numeri che dicono senza possibilità di essere smentiti che nei prossimi anni la pressione fiscale (oggi al 43,5 per cento) continuerà a salire (44,1 prevista nel 2016) e non scenderà affatto. Punto numero due: il lavoro. Il Jobs Act, inteso come provvedimento che rende più flessibile e a nostro avviso moderno il mercato del lavoro, è un provvedimento sacrosanto che avrà l’effetto di sbloccare diverse assunzioni che erano state rinviate nel tempo ma senza un intervento sul vero tessuto produttivo del paese – e senza mettere la testa su temi cruciali come la produttività, la contrattazione aziendale, la lentezza nell’assegnazione dei bandi pubblici, la rottamazione di una certa cultura anti industriale degli ambientalisti all’amatriciana che rendono impensabile per diverse aziende anche solo avvicinarsi al nostro paese – alla lunga gli sgravi previsti nella riforma serviranno a regolarizzare posizioni che andavano comunque regolarizzate e non a creare nuovo lavoro.
[**Video_box_2**]Non è compito del governo creare lavoro, ovvio, ma è compito del governo dare alle imprese le condizioni giuste per creare lavoro. E per un paese come l’Italia che dal 2008 a oggi ha perso il dodici per cento di pil potenziale, l’idea che nell’anno in cui tutto gira per il verso giusto il massimo che si riesca a fare è uno 0,7 per cento dovrebbe far venire al timoniere qualche dubbio in più sulla correttezza e il coraggio della sua rotta.