Il reato che non c'è
La Corte di Strasburgo dice che Contrada "non doveva essere condannato" per concorso esterno in associazione mafiosa. Da anni l'Italia "processa le ombre" e fa di un simil-reato la sostanza della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria.
Strasburgo dixit. Per la Corte europea dei diritti umani Bruno Contrada “non doveva essere condannato” e lo stato deve rifondergli i danni, con una grottesca provvisionale di diecimila euro. Bruno Contrada è l’italiano più simile a Joseph K., disperato eroe di Franz Kafka, quello che “doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto”. Alla vigilia di Natale del 1992, anno delle infami stragi palermitane, fu catturato, rinchiuso come alto funzionario dei servizi di sicurezza in un carcere speciale, seppellito da accuse tragicamente false e intrisecamente ambigue, che la giustizia alternatamente confermò, smentì e confermò in via definitiva attraverso la Cassazione. Molti anni di carcere, una vita e una salute distrutte, un senso dell’onore personale avvilito e dissolto nella fornace della gogna di stato, della calunnia e del pettegolezzo maligno, in spregio al “ragionevole dubbio” (e più che questo) generato da un’assoluzione in giudizio e da altre circostanze. La fattispecie del reato imputatogli era la famigerata ipotesi di “concorso esterno in associazione di stampo mafioso”. Non associazione mafiosa, non ce n’erano i minimi presupposti, ma “concorso esterno” (lo stesso odioso capo di reato che è costato la libertà personale a Marcello Dell’Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi, rinchiuso da un anno nel carcere di Parma).
L’avvocato Giuseppe Lipera, mentre l’ultraottantenne condannato grida con la sua voce rauca lo scandalo che lo ha distrutto, ha nel frattempo ottenuto l’avvio, che è per il prossimo mese di giugno a Caltanissetta, della revisione del processo. Vedremo, ma già la notizia della ripartenza è un botto. Intanto sta risultando chiaro, sul piano di un giudizio etico europeo che è superiore per tempra e senso argomentativo alla giurisprudenza che ha dannato il “mostro”, che negli anni in cui Contrada avrebbe compromesso collusivamente lo stato, di cui era funzionario di altissimo rango nella repressione del crimine organizzato, non esisteva alcuna chiara definizione del reato per cui Contrada è stato condannato, appunto il “concorso”. Un uomo è stato arrestato, avvilito dall’infamia, carcerato e distrutto nel suo onore per qualcosa che all’epoca dei fatti addebitatigli non era reato. E’ noto che la vecchia polizia, ai tempi in cui non tutto era definito abusivamente con la tecnica mal governata del pentitismo o delle intercettazioni a strascico, aveva i suoi confidenti, metteva con coraggio le mani in pasta per catturare e portare a esiti di giustizia i boss mafiosi, attuando una strategia fatta di razionali distinzioni e strumentali abboccamenti. E i boss braccati dai superpoliziotti come Contrada trovarono il modo, in un’epoca di barbarie giuridica, di rivalersi. Il solito Antonio Ingroia, oggi avvocato Ingroia dopo essere stato candidato Ingroia, nella sua veste di allora di pm, aveva imbastito l’accusa che trasformava la pratica di polizia in vigore per una intera epoca storica in una collusione, anzi in un “concorso” collusivo che solo una sentenza della Cassazione, due anni dopo l’arresto di Contrada (1994), definì, quasi la Cassazione avesse il potere di fare una legge, come reato associativo (da quasi tutti considerato flebile nelle premesse logiche e giurisdizionali).
[**Video_box_2**]Quando si dice la giustizia. Da anni, in processi a politici locali, uomini di stato (Andreotti) e uomini dello stato, trattiamo “le ombre come cosa salda”. E facciamo di un simil-reato la sostanza fin troppo realista della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria. Gli azzeccagarbugli leggeranno con spirito variabilmente manettaro la sentenza di Strasburgo, ma la sentenza questo dice.