Il mistero dello Sviluppo economico
Roma. Quasi non rilascia interviste, parla pochissimo, si ritrae, e infatti passa per antipatica anche se non lo è. Nel 2014, al Forum Ambrosetti, atterrò in elicottero, con nerboruti agenti di scorta a farle da barriera fin dentro i corridoi di Villa d’Este, a tenere lontani i giornalisti o i semplici curiosi, sempre poche le domande, dunque ancora meno le risposte. E insomma Federica Guidi, la donna d’impresa chiamata quasi un anno e mezzo fa a presidiare, da ministro, l’immobile catastrofe dello Sviluppo economico italiano, è a prima vista il contrario, l’antitesi letteraria di Maria Elena Boschi, che è invece tutta carne e sorrisi, smorfie e decreti, Vanity Fair e Montecitorio, un distillato della politica italiana ai tempi di Matteo Renzi. “Il ministro Guidi è un tipo che lavora a fari spenti”, dicono alcuni, “chissà quali importanti dossier ha per le mani”, si chiedono altri. E infatti questa sua ritrosia per il palcoscenico, nella spettacolosa logomacchina che è la politica moderna, la rende misteriosa, e le lascia sempre addosso quel non so che d’indecifrabile e di enigmatico in cui risiede poi il fascino di tutte le sfingi: l’incognita di uno sguardo perso fra le sabbie. Eppure, se nei Palazzi romani, e anche nei grattacieli di Milano, la signora Guidi è chiamata “il ministro fantasma”, non è perché il mondo economico, e quello politico e amministrativo, ne vogliano celebrare il pudore e il fascino ermetico. Sia a Roma, sia a Milano, manifestano un ben più prosaico problema: “Se chiami al ministero non sai con chi parlare, e se parli con qualcuno spesso ti dicono di telefonare a Palazzo Chigi”.
E certo l’appellativo di “ministro fantasma”, sibilato con gaiezza maligna, contiene una buona dose di contundente ingiustizia. Per dire, la signora Guidi si era presentata in Consiglio dei ministri, qualche settimana fa, con un poderoso decreto per le liberalizzazioni, nel paese del corporativismo tardo fascista, che una “manina”, più d’una tra quelle dei colleghi, le ha fatto poi a brandelli. E insomma di coraggio e di idee forse ne avrebbe, eppure nessuna delle grandi questioni industriali, né l’Ilva né l’Alitalia, è passata dalla sua scrivania, nemmeno quel mezzo pasticcio che porta il cosmetico nome di “Sblocca Italia” è opera sua, di quel ministero che negli ultimi governi ambiva a essere addirittura un pari grado del Tesoro. “Chiamate Palazzo Chigi”, dicono, dunque, lì dove al telefono risponde Andrea Guerra, ministro ombra di un’ombra di ministro, uomo che possiede in abbondanza quella che si chiama padronanza di sé (“io per i politici sono un mix strano: sono credibile, rapido e batto i tempi”), il famoso manager che Renzi ha forse voluto per accentrare, scippare, e in definitiva disarticolare proprio quel ministero dello Sviluppo da cui in un anno sono fuggiti due segretari generali, il capo ufficio stampa, il capo del legislativo, e dove adesso dicono arriverà il commissario del popolo renziano Raffaele Tiscar, attuale vicesegretario generale di Palazzo Chigi, renziano sin dai tempi in cui Renzi aveva i pantaloni corti, chiamato a ricoprire il ruolo di capo della macchina amministrativa.
[**Video_box_2**]E pare che la signora Guidi, come molti dei suoi colleghi in questo governo, avverta in un brivido la sensazione di decadere senza suo demerito a buona amministratrice ma di gesso, a ornamento liberale del governo, a delegato e ministro allo Sviluppo dei soprammobili, cioè a manichino. E un po’ dovunque, nei ministeri italiani all’epoca del centralismo fiorentino, per la verità, ministri e funzionari, tecnici e burocrati, vanno sporcando la loro giornata di sguardi fiacchi, passi gravi, pensieri malinconici e stanchi: “Fanno tutto lì. A Palazzo Chigi”. Ed è un lamento di carattere endemico e di andamento carsico, che però riaffiora di continuo. Sono costretti a brontolare la verità, ma come i camerieri, cioè in cucina. Ed è dunque in questa morbidezza di perplessità, di timori, di dubbi esistenziali, che al ministro Guidi capita di scoprire le virtù del silenzio, del pudore, l’arte magica di saper sparire, puff. Il ministro che fa? “Tace”. E non perché il suo modello sia l’etica della muta efficienza, come dicono gli apologeti, una specie di regola benedettina, “ora et labora”. Ma forse perché, comprensibilmente, non ha nulla da dire.